Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Lo spazzino
di Flavia Florindi
Flavia Florindi – Lo spazzino
Cadevano i fiori di pesco.
La stagione della fioritura era finita e dalla finestra della camera vedevo l’orto di fronte diventare sempre più rosa. Un soldato è passato a piedi, il respiratore che lo faceva sembrare un’apparizione, l’aurora colorava la canna del fucile.
Con un sospiro mi sono ritirato dietro la tenda, infilando nelle asole i bottoni della divisa che mancavano. Ecco: avevo finito. Ero pronto a uscire. Ho fatto scattare la serratura della porta, i tubi di metallo che sotto il rivestimento impiallacciato stridevano di vecchiaia.
«Aspetta».
Ho bloccato il piede sul quarto gradino, inquadrando più in basso rispetto ai miei occhi quelli fondi e assonnati di Lia, il pigiama due taglie più grande che pendeva da ogni lato. Ho sorriso.
«È presto, lo sai?».
«Non ho sonno».
E così dicendo si è strofinata gli occhi.
«Lavati, poi. Anche i piedi».
«Gli spazzini hanno portato via Brando».
Un raggio di sole che pioveva dalla tromba delle scale ha colpito il petto della bimba, disegnando un foro al centro.
«Mi dispiace» ho mormorato.
«Per favore, se lo trovi, ci pensi tu?».
Lentamente ho annuito, disegnando una smorfia.
Fuori dal portone le polveri sottili galleggiavano nell’aria: accostato il bavero mi sono incamminato alla fermata della metro, l’eco delle suole che rimbombava nelle vie che scendevano al mare. Un gatto è sbucato dalle rovine del vecchio municipio, inseguito da un topo grande quanto lui; da ponente, il grido confuso di un gabbiano; davanti e dietro il vuoto.
Ho accelerato, consapevole di non rischiare alcun richiamo seppure fossi arrivato in ritardo, ma ero fatto così e non potevo cambiare.
Alla banchina della metro soltanto poche persone, la distanza di sicurezza superiore a quanto prescritto dall’ultima ordinanza, gli sguardi che spiavano da sopra i respiratori l’arrivo del treno. Sono rimasto in piedi anche se il vagone era deserto: volevo guardare il mare, che appariva sempre dal finestrino destro, e riempiermi della sua bellezza come un assetato di acqua dolce. Mi sarebbe dovuta bastare fino alla sera, fino all’indomani, fino a che pure il mio respiro avesse finalmente deciso di cessare.
Alla quarta fermata sono sceso, camminando tra edifici un tempo industriali.
«Ehi tu!».
I miei colleghi, spazzini anche loro, i soli volti che ancora potevo guardare per intero da quattrocentoventisei giorni a quella parte, ciondolavano nel cortile dove mi ero infilato: Malcom era appena uscito dal capanno.
«Sei di turno a terra, oggi» ha detto l’uomo puntando il dito su di me.
Non ho protestato, anzi ero quasi felice che fosse toccato a me.
«Mezzo in movimento!».
Il portone si è mosso, cigolando, mentre i soldati che dovevano accompagnarci sono scesi da un furgone con i respiratori azionati, dieci paia di occhi che scrutavano dalla parte nostra, invidiosi, spaventati, nervosi. Il camion sul quale stavano aggrappati i miei compagni ha cominciato a muoversi, noi quattro dietro a piedi come i figuranti di una processione. In silenzio ci siamo infilati sulla piazza, fino a due anni fa piena di passanti, tavolini, biciclette, fiori. Adesso le fioriere accoglievano solo cenere: quella che ricadeva dall’inceneritore. A un tratto il camion si è fermato, i soldati hanno spianato il fucile, il mio capo ha bestemmiato: era il segnale.
Il portone dell’edificio aveva i battenti socchiusi: l’odore dall’interno mi ha rovesciato lo stomaco. I soldati hanno riso, un suono cupo e stridulo.
«Muovetevi!».
«Entriamo» ho detto io, spingendo i battenti.
Il buio di quell’ambiente mi ha ferito gli occhi.
«Raccoglieteli tutti!» ha ragliato da fuori l’ufficiale.
«Anche se respirano?».
«Anche se respirano: tanto, moriranno lo stesso. Non sono come voi» ha risposto, urlando così forte da far tremare quelli ancora vivi a terra, gli occhi rossi come la pelle ricoperta di croste.
«Quelli per ultimi» ha ordinato il mio compagno «riempiamo prima il camion».
Allora ho steso le mani verso il corpo raggomitolato davanti a me, sollevandolo sopra la spalla, così piccolo e senza peso che non avrei saputo dire se fosse davvero un bambino oppure un vecchio. La malattia, quella che divorava il mondo da quattrocentoventisei giorni, gli succhiava via pure l’aspetto. Avanti e indietro, cadavere dopo cadavere, il puzzo della morte che talvolta diventava intollerabile, le mani sporche di sangue che usciva loro dappertutto.
«Non vi fa nulla» diceva con un ghigno l’ufficiale attraverso il respiratore «bella fortuna che avete!».
Già. Gli spazzini. Quelli che non prendevano la malattia provocata da Iris, il nuovo virus che ti faceva diventare una bambola voodoo.
«Veloci, forza, che i forni sono vuoti!» ha urlato ancora il capitano.
Ho caricato un altro cadavere in spalla e l’ho rovesciato nel cassone.
Tramontava quando le suole degli stivali hanno rotto il silenzio della salita in cui si affacciava l’orto che vedevo dal balcone. Tre rampe di scale a piedi, la tracolla che dondolava contro il fianco, poi la chiave nella serratura e la porta sulla destra che si apriva.
«Ciao Lia».
Il faccino della bambina si è sporto di più.
«Hai trovato Brando?».
«Sì».
Lei si è illuminata e quasi ha gridato.
«Davvero?!».
Ho tirato fuori dalla borsa un barattolo piombato, giallo come i limoni Lia si è slanciata fuori, senza nessuna precauzione, i piedini scalzi che volavano sul pavimento freddo, e mi ha gettato le braccia intorno alla vita.
«Non puoi…» ho balbettato mentre andavo indietro, preoccupato, spaventato.
Nessuno toccava gli spazzini. Ma la bimba mi sorrideva e io vedevo la faccia mia riflessa nei suoi occhi. Poi ha portato il barattolo alla guancia, strofinandola sul metallo freddo.
«Grazie per aver trovato mio fratello!» ripeteva con la vocina da passero.
Io mi sono allontanato verso la rampa di scale. Lia è corsa in casa, ma prima di chiuderla mi ha mandato baci con le manine. Dopo, sul pianerottolo è tornato il silenzio. Però non il freddo, le dita a cercare il calore di quella presa, e ho sorriso.