Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Duecentottantadue giorni

di Mania Mehrabi

Farzâd non aveva mai lasciato il suo luogo d’origine. Venne gettato con violenza in un mondo ignoto, poco ospitale, dai confini e dai contenuti sconosciuti. Si chiedeva spesso come fosse possibile che la natura non avesse ancora escogitato un modo meno traumatico per compiere questo rituale dopo centinaia di millenni dalla storia dell’uomo. Nei mesi precedenti alla partenza si era fatto un’idea di come potesse essere il suo avvenire, segnato da quell’istante che tratteggiò una linea tra un prima e un dopo.

“Era così accogliente casa mia”.

Si era preparato per duecentottantadue giorni. Il conto alla rovescia era estenuante. Al quarantaduesimo giorno, il pensiero di venire catapultato in un luogo in cui non era cresciuto gli provocò una reazione ansiogena corredata da una violenta tachicardia che scomparve solo col tempo, una volta ambientatosi nel nuovo posto. Ogni due mesi, Âfarin, la madre, lo portava dallo specialista per i controlli di routine per essere sicura che stesse bene ma Farzâd, nonostante la previsione dello strappo dall’unico posto al mondo che conosceva, cresceva sano e robusto; giorno dopo giorno le sue capacità organiche aumentavano esponenzialmente, la sua vista si sviluppava sempre di più e diventava più forte e vigoroso con una velocità sorprendente.
La sua fisiologia lo stava preparando.
Le settimane passavano una dietro l’altra, cadenzate dalla misurazione dell’altezza di Farzâd da parte della mamma – una stima fondamentale affinché il viaggio potesse concludersi – che preparava il figlio a questo passaggio che in ogni angolo del mondo veniva compiuto da tempi immemori.

“Mamma non voglio andare via”.

Âfarin era serena, sembrava non preoccuparsi per le sorti del figlio. Lasciarlo andare era naturale, ma più si avvicinava lo scadere del tempo, più il tasso di riuscita del viaggio incrementava e più Farzâd era inquieto. Al centoquarantaquattresimo giorno, infatti, le tirò un calcio e l’unico modo per calmarlo, da lì in avanti, fu sentire la voce della madre. Fu come se non avesse mai udito un suono così soave. Ed effettivamente così era. Dal centoquarantaquattresimo giorno iniziò ad essere sensibile ai rumori.

“Mamma voglio rimanere qui”.

Il tempo, come in tutte le storie del mondo, fece il suo corso. Le settimane e i mesi passarono e al duecentocinquantaduesimo giorno in Farzâd cominciò a prendere forma il pensiero che non era poi così male lasciare il conosciuto per inoltrarsi in terre estranee, che avrebbe avuto più spazio per sé, cominciava a sentirsi stretto circondato da quelle solite pareti. Eppure, quel tepore di casa, le cibarie sempre pronte, le carezze sulla testa erano irrinunciabili.

“Non so se sono pronto, forse…”.

Al duecentottantaduesimo giorno si ruppero le acque. Arrivarono le contrazioni. Farzâd aiutò la dilatazione uterina di Âfarin. Ruotò su se stesso per concludere il passaggio. Si agitò. La madre lo aiutò facendo dei respiri profondi e veloci. Visse la prima di una lunga serie di situazioni stressanti che lo aspettavano lì fuori. Era nervoso, impaurito, incuriosito, tachicardico ma si incanalò e, tra una spallata e un’altra, si fece spazio nel mondo. Gli sfregarono la schiena, le luci lo accecavano, i rumori erano come aghi nelle orecchie, pianse disperatamente ma sentì immediatamente un gran sollievo: la voce di Âfarin.

“Non è poi così male venire al mondo”.

 

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