Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

FFP2

di Francesco Ricci

La ragazza giovanissima e slanciata tornò ancora una volta davanti allo specchio. Non riusciva a starne lontana. Rimirò qualche altro dettaglio, inclinando leggermente la testa, compiaciuta, poi disse: – Mamma, sei pronta?
Sonia uscì dal bagno, battendo le labbra per fissare il rossetto cremisi appena messo. Anche lei si era attardata davanti allo specchio.
– Sì, Sara. Pronta!
Infilò il piumino, il cappello di lana e insieme alla figlia prese la via della porta.
Suo marito era già in strada insieme a Manuel, il figlio più piccolo.
Uscite dal portone, lei e Sara trovarono i due che si rincorrevano; Manuel scappava ridendo, il marito inseguiva, e quella scena colpì Sonia per la sua tenerezza e semplicità, perché era una scena così spensierata, di una ritrovata spensieratezza, finalmente. Da poche ore il decreto nazionale aveva annullato ogni misura restrittiva, e si respirava appieno il clima di festosa liberazione che ormai circondava tutti, lo stesso clima che probabilmente deve esserci alla notizia di una guerra che finisce. Solo che quello non era stato uno scontro fra due eserciti. Il nemico invisibile si era rivelato perfido, tenace come pochi, e c’erano voluti due anni buoni, di quarantene e ricerca scientifica, per ridurlo a qualcosa di limitato e poco offensivo, allo stesso modo del comune virus influenzale.
S’incamminarono verso la piazza.
A metà tragitto distinsero il fumo denso che oltre il tetto degli edifici saliva serpeggiando verso il cielo.
Il corso era tornato affollatissimo, come, prima della pandemia, lo era nei fine settimana: famiglie, gruppetti fermi a chiacchierare, giovani e adolescenti, anziani nei bar, coppie davanti alle vetrine luminose dei negozi… Era la vita metropolitana consueta, mondata dalla paura del contagio e dalla diffidenza verso il prossimo. Erano le cose di dopo, belle e uguali a quelle di prima.
Quando giunsero in piazza, il marito cominciò a fendere la calca, tirando per la mano Sonia, e lei trascinando i due figli, perché era difficile passare. Molti, però, avevano già fatto, per cui si spostavano.
Guadagnarono tutti e quattro la transenna di sicurezza.
Ognuno lì davanti si protendeva e lanciava una o più mascherine dentro al falò, e l’aria era tutto un volare di pezzi di stoffa bianchi, azzurri, colorati. Un grande evento, fotografato con gli smartphone e condiviso col mondo.
Il marito e i due figli non si fecero pregare. Gettarono dentro al fuoco il simbolo della lotta al Covid-19.
Manuel si voltò. – Mamma, e tu?
Dalla tasca del piumino, Sonia estrasse una busta di plastica trasparente. Dentro c’era una FFP2.
La mantenne per un istante, rivedendosi nel ricordo.
Aveva finito da poco il turno di notte. Nel bagno dello spogliatoio, sola, davanti allo specchio del lavabo, s’era tolta le protezioni, e fissava quella faccia distrutta che quasi non riconosceva come sua. La pelle intorno alla bocca era piagata e arrossata, a causa della mascherina tenuta per troppe ore consecutive. «Ne usciremo, da questo inferno? E quando?» si era chiesta, sfiduciata. I camion militari quella notte avevano portato via le bare ammucchiate nell’obitorio.
Si era ritrovata fuori dell’ospedale, nell’ora antelucana.
Attraversando lo slargo davanti al pronto soccorso, aveva guardato due ambulanze che arrivavano a lampeggianti accesi ma senza sirena, e aveva chiuso gli occhi, per non pensare.
Poi, strade vuote, deserte.
Da un po’ posteggiava la macchina in una traversa e non nel parcheggio interno riservato ai dipendenti. Se dopo il lavoro non avesse fatto due passi e scaricato una parte della tensione, sarebbe impazzita.
La sua auto. Mise la mano nella borsa, per prendere le chiavi.
Rovistò.
Tra le tasche interne, un sacchetto di plastica che non sapeva a cosa collegare. Lo sfilò. Dentro c’era una FFP2 nuova, mai usata. «È per quando uscirò da qui», le aveva detto attraverso il boccaglio quel vecchio il giorno prima, dopo appena ventiquattr’ore di ricovero. Da un familiare se l’era fatta consegnare apposta, il modello migliore. «Voglio che lo tenga lei, infermiera. È la mia speranza…» Faticava a ricordarne il nome, che si perdeva fra i tanti Giovanni e Antonio e Michele che affollavano la terapia intensiva, e che quella notte avevano lasciato il letto ad altri, ma non per tornare a casa. Il tono della voce, così pacato e dignitoso, era tuttavia indimenticabile.
Sollevò piano il capo, il suo viso coperto per metà, riflesso dal cristallo del finestrino.
Le lacrime avevano cominciato a scendere, un pianto silenzioso che lei cercò di trattenere senza cedere allo scoramento, poi strinse forte il sacchetto, e decise di custodire la mascherina, portando avanti la speranza di quell’uomo, come un tedoforo la fiaccola.
Infine curvò il braccio, lo mosse di scatto, nel vociare gaio della gente intorno, che con lo stesso suo gesto si liberava di tutto ciò che di brutto era stato.
Sonia guardò Sara e Manuel, che sghignazzavano, chissà per che cosa. Era l’allegria del dopo, e le loro bocche sorridevano al futuro.

 

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