Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
IL DIVANO
di monia merli
Avevo sempre immaginato di trovare un divano oltre quella porta, un divano rassicurante. Magari di pelle marrone chiaro e con una coperta gettata di traverso. Cuscini sprimacciati da poco. Colori caldi ovunque. E, in effetti, il divano c’è. Non è come lo avevo immaginato, è più piccolo, non mi ci potrei stendere, ma stare comoda forse sì. C’è una poltrona davanti al divano, anzi due: una più consumata dell’altra, si vede, ma non saprei dire perché. Un tavolino con un contenitore di fazzoletti di carta. Quei contenitori che, appena ne prendi uno, lui ti propone il successivo. Ti invita al pianto quel contenitore. Appoggiata al tavolino c’è anche un’agenda e una penna Bic, che pare stonare con l’eleganza di quella stanza: è una Bic nera. Ho sempre pensato che quelle blu fossero inutili. Tutte le penne blu.
Mi ha chiesto come sto, come se questa fosse una domanda semplice. È una domanda di rito, penso. Ma io non lo so proprio come sto. Anche se potrei parlare per ore di come sto, ma del resto sono qua per questo: per parlare, almeno per quei cinquanta minuti che mi separano dal paziente successivo.
Gli dico che sto bene, perché mi hanno insegnato a rispondere così. È cortese, non bisogna tediare l’altro, infastidirlo con i nostri problemi, con le nostre crisi. Ma poi mi smentisco. Azzardo un Abbastanza bene e un Insomma. Poi inizio a raccontare di questa fase, la chiamano fase, dicono che passerà, dicono che bisogna essere forti e sopportare, resistere. Gli dico che io, ora, non ce la faccio più a resistere. Parlo velocemente, mi mangio mezze parole, non respiro. Penso che ho fatto anche un corso di dizione per imparare a respirare mentre parlo, penso che non è servito a molto. Ma questo non lo dico.
Mi sorride lui. Non dice nulla e attende che io proceda, magari si aspetta anche che io pianga. Chissà quante lacrime hanno visto questi muri, penso. Chissà quante storie, magari più concrete della mia. Persone che davvero stavano male, non come me che mi lagno, che forse dovrei evitare, non essere qui. Perché io che cosa ho in fondo? Non sono malata, nessuno dei miei cari si è ammalato, stiamo tutti bene noi. C’è chi ha sofferto di più per tutto questo che c’è capitato. Questa cosa devo averla detta ad alta voce perché lui mi sta dicendo che Non siamo qui per pensare agli altri, ma a me. Che ho anche io il diritto di sentirmi male, se voglio. Se così mi sento.
Prendo il coraggio e gli dico che fino a ieri stavo bene, in casa mia, sapendo che ognuno era chiuso in casa sua. Gli dico che guardavo la mascherina appesa alla maniglia della porta e mi sentivo sicura, protetta. Gli dico che mi piaceva sentire gli amici che mi chiamavano per chiedermi Cosa fai? Come stai? Come la stai vivendo? Ma che, soprattutto, mi piaceva chiamarli e dire a loro Passerà tutto. Mi sentivo forte, gli dico, perché io sono abituata a stare da sola, in casa mia. Loro no. In quei giorni mi sono sentita meno sola, gli dico. Ho sentito che la mia solitudine, per una volta, aveva una giustificazione scritta.
Fuori la luce sta calando e lui accende una lampada a stelo che lo illumina dall’alto, anche se lo illumina poco, l’atmosfera intima deve essere sempre preservata qua dentro, penso. La lampada è dietro alla sua testa, dietro alla sua poltrona, quella più usata. Chissà a cosa servirà quell’altra poltrona, mi chiedo. Chissà se qualcuno si siede mai lì. Magari un giorno lo domanderò a lui, oggi no. Oggi devo parlare della mia paura.
Mi sta chiedendo questo, di cosa ho paura. Cosa vedo oltre quella porta? E io, in fondo, so di non averci mai pensato, mai seriamente almeno. Rimango in silenzio. Guardo quella poltrona vuota, guardo i miei piedi. Ho messo delle scarpe verdi oggi. Gli dico che il verde mi dà sicurezza, ma non sto rispondendo alla sua domanda. Di cosa ho paura ora che tutto sta ritornando alla normalità? Ora che questo periodo sta passando e che a breve l’emergenza sarà dimenticata o, comunque, superata e ci sarà altro di cui parlare? Di cosa ho paura io?
Lo guardo. Lui non parla, ma con uno sguardo mi ripete la domanda. La sua mascherina è scivolata sotto al naso, la mia è bagnata dalle lacrime. Non riesco a parlare. Di cosa hai paura? Ripete.
Del dopo, dico.
Lui guarda l’orologio al polso, prende l’agenda e mi chiede: Come rimaniamo per la prossima volta?
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