Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Concerto di Natale
di Gioia Granata
Il corso è un brulicare di gente impazzita che sfreccia zigzagando tra i negozi e inchiodando davanti alle sfavillanti vetrine ammaliatrici, vestite a festa per quello che è sempre stato senza ombra di dubbio il loro momento. Gli aloni dorati delle lucine (è finalmente passata la moda dei led blu elettrico che evocavano i lampeggianti dei Carabinieri) e i fumi del vin brulé rubato ai nostri nordici connazionali sembrano mitigare un po’ l’aria pungente… ohibò, si vede persino qualche fiocco di neve scendere lentamente e sostare per pochi secondi sui lucidi boccoli delle signore appena uscite dal parrucchiere. Mi apro un pertugio in mezzo ad una foresta di buste infiocchettate e pile pericolanti di pacchetti e mi infilo in libreria: anche qui, ormai da qualche anno, c’è la fila. Aspetterò, ma non posso presentarmi senza il regalo di compleanno… quello di Natale arriverà dopo. I nostri regali arrivano sempre dopo, ormai è una tradizione radicata più del brodo col cardone. Praticamente a fine gennaio noi siamo ancora in piena atmosfera natalizia. La casa di Luce è a poche centinaia di metri, in un vicolo vicino al Teatro, arriverò in tempo. Quasi.
Abbiamo appuntamento alle 18. Il pretesto è una prova per il concerto, ma so già come andrà a finire. A conferma del mio presentimento, sulla soglia mi accoglie un delizioso profumo di Sacher appena sfornata. È il suo cavallo di battaglia, alla pari con i Preludi di Gershwin.
Sul pianoforte a coda, accanto agli spartiti, tavolette in tutte le percentuali di cacao immaginabili si specchiano nella vernice lucida.
«Prima le prove» dico con aria non troppo convinta, gettando cappotto e spartito sul divano.
«Va bene, tanto deve raffreddarsi la glassa».
Per la prima volta arriviamo alla fine del primo movimento senza intoppi, fianco a fianco, con i mignoli che si sfiorano cedendosi il posto l’un l’altro e lo stesso sorriso soddisfatto stampato in faccia. Beh, proprio lo stesso no. Luce ha denti dritti e bianchissimi come i tasti del pianoforte… senza i diesis e i bemolle naturalmente.
«Comunque l’ultima voltata toccava a te» mi rimbecca, mentre torna con due fette di torta sormontate da nuvole di panna.
«Vero. E tu non hai tolto il dito in tempo dal mio Do diesis».
«Vero. Allora siamo pari».
Rubo dal suo piattino una cucchiaiata di panna: «Adesso non più».
Mentre raccolgo le ultime briciole schiacciandoci sopra i polpastrelli, una domanda troppo seria per il tono della serata mi sale alle labbra: «Lu». Alza la testa con la punta dell’indice ancora in bocca ed un’espressione vagamente allarmata. «Lu… ci pensi mai a quel Natale?» Non ne abbiamo mai parlato, come se bastasse il ricordo a sciupare questa spensieratezza riconquistata e forse un po’ isterica, ma sappiamo che proprio gli aspetti migliori di questo nuovo benessere sono la diretta conseguenza delle privazioni di quel periodo oscuro. Ad esempio: se non avessimo tutti provato quanto sia triste la totale mancanza di eventi come concerti e presentazioni di libri e se non fossero stati proprio questi raduni di parrucconi le prime occasioni di un ritorno alla vita sociale, se le persone non avessero avuto tanto, troppo tempo da riempire e non avessero disperatamente desiderato di provare ancora una volta la magia dell’arte e della musica dal vivo, della condivisione di un’emozione, se non fossero state costrette a spegnere la televisione per sfuggire ai bombardamenti delle curve epidemiologiche, tornando così a tuffare il naso nei libri… se tutto questo non fosse accaduto, io e Luce avremmo mai fatto un concerto di pianoforte a quattro mani la Vigilia di Natale in Teatro? No. Perché gli unici spettatori sarebbero stati l’organizzatore e le solite tre zitelle, che per ovvie ragioni non sarebbero state in cucina a friggere sarde e peperoni secchi. Però certi pensieri, benché sempre presenti in filigrana, se espressi ledono una sorta di tacito accordo stipulato tra chi voglia continuare a vivere con gioia e leggerezza. A metà della domanda mi ero già pentita di averla pronunciata. Luce, seduta a gambe incrociate sul fantastico parquet a fasce bicolori, non sembra turbata. Prima di rispondere, si prende qualche secondo poggiando il piattino a terra e sistemandosi la coda.
«Sì, ma non troppo… o meglio, ci penso come i nostri nonni pensano alla guerra. Lontana».
«Lontana» Ripeto. «Sai, certe volte ho l’impressione assurda che i vecchi quasi la rimpiangano la guerra. Sarà perché le cose “lontane”, come dici tu, prendono quella patina particolare che attenua gli aspetti più dolorosi».
«Anche. Ma la precarietà dell’esistenza porta a vivere tutto in maniera più profonda. Molto è stato loro tolto, ma hanno avuto in cambio tanto altro, come l’idea precisa di cosa sia la libertà. Hanno impiegato la loro vita a cercare di insegnarcelo, adesso un po’ lo abbiamo imparato anche noi. Penso che quel Natale sia stato uno dei più intensi, perché al mondo non c’era nulla di più prezioso delle tre persone sedute a tavola con me. Caffè e poi secondo movimento?» Sorrido: fine della parentesi melodrammatica. «Sì».
Finiti l’ultimo movimento e l’ultima tavoletta di cioccolata, prendiamo i cappotti e usciamo, per lasciarci contagiare dalla caotica euforia delle feste. Percorrendo il vicolo, non posso fare a meno di pensare che la vita sia uno spartito: i giorni sono le battute, unità concatenate in periodi. In un brano convivono tonalità maggiori e minori, andamenti più lenti o più animati e gli stessi episodi possono ritornare più volte, magari con alcune variazioni, le quali presuppongono l’esperienza del “già vissuto” per essere comprese. E come in un brano ogni singola nota è parte essenziale del tutto, così ogni secondo dà senso alla vita. Il duemilaventi? È stato un lungo ponte modulante, pieno di dissonanze dolorose ma necessarie per approdare alla nuova tonalità, diciamo un luminoso Do maggiore, in cui i semitoni sono al loro posto naturale. Stavolta resto zitta. Luce sorride: «Andiamo?»