Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Sull'Everest non fa sempre freddo
di Nikolas Francini
Quando lo racconto mi viene da ridere. Ogni vetta che ho raggiunto aveva un legame con tutte le altre: il freddo. Ma ieri sull’Everest non faceva freddo. All’inizio ho pensato potessero essere l’eccitazione del momento e il panorama a scaldarmi, io sopra le nuvole dopo tutta la fatica e all’orizzonte quella pace che pervade tutto, senza confini. In vetta ci siamo arrivati tutti e cinque. Siamo partiti molto presto per goderci i primi raggi del Sole che piano piano si facevano spazio tra le nuvole e ci accecavano quel tanto che bastava a farci tirare un sospiro di sollievo: eravamo arrivati in cima. Avevamo scelto di fare uno dei percorsi più duri e in effetti, ad esser sincero, non pensavo ce l’avremmo fatta tutti a quel livello di difficoltà; alcuni a mio avviso erano un po’ mingherlini e comunque gli ostacoli crescenti del tragitto, primi tra tutti il freddo e la mancanza di ossigeno dettata dall’altitudine, non ci permettevano troppe distrazioni. Eppure, eravamo tutti lì fermi seduti a guardare uno degli spettacoli più belli di questo mondo. I pensieri quasi non avevano tempo sufficiente per svilupparsi: l’occhio seguiva veloce i movimenti delle nuvole, che continuamente cambiavano forma e colore a causa del vento e della luce che via via si faceva sempre più accesa. E ci donava sfumature meravigliose. E quando anche qualcuna tra le altre vette iniziava a fare capolino dagli spazi liberati dalle nubi: WOW! Da lasciarmi senza fiato, anche se il cartellone luminoso con su scritto “E.V.” stonava un po’ dalla genuinità del contesto, però non ci facevamo molto caso: ci eravamo abituati da tempo.
Dopo circa dieci minuti, siamo stati raggiunti da tre ragazzi che, a giudicare dalla bandiera che avevano raffigurata sull’equipaggiamento, dovevano essere spagnoli. Abbiamo iniziato a parlare, ciascuno nella propria lingua. Erano tutti e tre di Barcellona. Ci hanno raccontano che era la loro prima volta in montagna e non si aspettavano di trovare subito l’occasione per un percorso da un paio d’ore per l’Everest all’alba: “I miracoli del black friday!” Erano contenti e meravigliati, come dei bambini mentre aprono i regali a Natale. Si sono seduti vicino a noi e poi, per qualche minuto, ha regnato il silenzio umano fino a quando si è aggiunto un gruppo di sei ragazze etiopi e con loro si sono conclusi i posti a sedere. Abbiamo iniziato a conversare tutti insieme, ciascuno sempre nella propria lingua. “Ah i miracoli della globalizzazione!” Una di loro si mise a piangere perché non aveva mai visto “così tanto bianco” e sentito “così tanto freddo”. Ci hanno confessato di aver acquistato durante il sentiero per arrivare in vetta un gadget particolare, in aggiunta all’equipaggiamento base, che permettesse loro di alzare ulteriormente la temperatura perché “da noi nemmeno se entri in un frigorifero fa così freddo: la nostra esperienza a 3°C equivale alla vostra a -15°C.” Siamo tutti scoppiati a ridere. In effetti, a pensarci bene, eravamo davvero dei principianti, se paragonati ai veri scalatori. Ci hanno poi inviato un link – alla faccia di chi dice che “sull’Everest prende male” - nel quale c’erano le istruzioni da seguire per andarle a trovare in Etiopia. In poco tempo si era formato un bel gruppetto e ad un certo punto, così dal nulla, uno dei ragazzi spagnoli aveva una chitarra in mano e si è messo a suonare. Nessuno cantava, nonostante qualche canzone ci fosse nota: tutti ascoltavamo come le sue note, partendo dalle corde della chitarra, si estendessero verso i confini più lontani di quel luogo mescolandosi al vento. Chissà se le avrebbe portate ad altre orecchie. Volevo sperarlo, avrebbe reso il tutto più romantico e misterioso, ma in cuor mio sapevo che si sarebbero fermate a noi presenti. È un peccato che sull’Everest ci siano solamente quindici posti, merita molto di più! Son certo, però, che diventerà meno esclusivo andando avanti con il tempo. D’altronde basta allenarsi un po’ e scegliere il percorso più adatto ad ognuno di noi. Al di là del sentiero scelto, la vetta è uguale per tutti, così come lo spettacolo che apparirà ai nostri occhi.
Anche se ognuno percepisce la realtà a modo suo, non sono forse le percezioni e le esperienze condivise che accomunano le persone? Non lo so, ma di fronte all’opportunità di ieri ho avuto giusto il tempo di pormi una domanda: in un mondo così veloce e connesso, in cui nel giro di poco tempo puoi raggiungere qualsiasi luogo e qualsiasi persona, cosa ci rimane se non le percezioni? E dobbiamo essere capaci e rapidi a fissarle bene dentro noi stessi altrimenti, così come le nuvole, cambiano sotto il soffio di venti più forti e sotto la luce di raggi più caldi. O si perdono nella solita routine che invade aggressivamente la vita di tutti i giorni.
O svaniscono quando la batteria del visore virtuale si esaurisce.
“Ciao ragazzi devo andare, ovviamente mi son dimenticato il caricabatterie a casa di mia nonna! Ci mettiamo poi d’accordo per un altro viaggio: ho visto che la settimana prossima uscirà “Fossa delle Marianne” sempre della Easy Virtual. Vediamo poi il prezzo di lancio, però ci starebbe di brutto!”
Li avevo invitati per un altro “viaggio”, ma so che molto probabilmente non li rivedrò. La tecnologia nell’era delle grandi connessioni fa questo: rende le relazioni liquide, mutevoli. Vediamo tanti posti e tante persone, ma viviamo poco di tutto ciò: giusto il tempo della carica di una batteria e qualche impostazione nel software della realtà virtuale, il giusto prezzo da pagare per un piccolo chip neurale sottopelle che ci rende accessibili ogni angolo ed esperienza di questo mondo. Dai sensori tattili a quelli visivi, passando per il dizionario universale già compreso nella versione base: tutto è modificabile in modo da rendere l’esperienza sempre più vera, senza che lo sia in realtà. E se poi ti dimentichi spenti i trasduttori termici installati sui guanti…
Ecco perché sull’Everest non fa sempre freddo.