Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Senza mai più rincontrarsi
di Riccardo Varveri
Stava tornando a casa dopo il turno. Come da due anni a quel momento, staccare da lavoro significava che era mattina. Sempre lo stesso orario: 6:50. Odiava quel lavoro, “Ma cosa devo fare”, diceva, “è la necessità che mi spinge”. Lavorava fino a tardi, sognava di leggere il suo nome pubblicato e venduto in una libreria del centro, su un libro, essere l’autore preferito di una persona, l’immancabile in una libreria. Lei si era svegliata poco prima, alle 6:30. Aveva sceso le sue gambe lunghe e affusolate dal letto, stropicciando gli occhi, raccogliendo i propri capelli in una coda che arrivava fin sotto la vita. Aveva preparato la colazione, un caffè, una brioche surgelata comprata al supermercato qualche giorno prima. Cominciava a prepararsi. Aveva pensato che quel lavoro avrebbe dovuto lasciarlo prima o poi, la vita da manager non la soddisfaceva ancora. Certo, percepiva una buona paga, ma al mattino, mentre con la mano sinistra lavava i denti, ruotava ancora la destra, leggiadra, a ritmo di Mozart, come quando da bambina, davanti allo specchio, mentre sua madre cercava di insegnarle come andava impugnato lo spazzolino, lei continuava a muoversi come fosse alla Scala. Sputò l’acqua nel lavandino. Uscì di corsa sui suoi tacchi, nemmeno troppo alti, scura di carnagione, bellissima. Cercava l’amore da lungo tempo, ma complice un po’ la carriera, complice il non aver mai trovato davvero nessuno di interessante, non era mai riuscita a innamorarsi davvero. Cosa cercava? Non lo sapeva. Forse non cercava neanche. Qualcuno che la tenesse lontana dai numeri e dai contratti, dalle negoziazioni, dai pensieri economico-giuridici, morbosi. Gli scivolò il ‘taccuino dei pensieri sparsi’ dal taschino. Si fermò appena in tempo, prima di calpestarlo. Lo raccolse. Usciva da lavoro con la sua divisa acrilica, pesante per sopportare il rigido inverno. “NETTEZZA URBANA: RACCOLTA RIFIUTI” c’era scritto sulle spalle. Non era solo un lavoro: per lui una qualifica. Non si spiegava perché i suoi versi, le sue parole non venivano lette o considerate. Si rispondeva leggendosi sulle spalle: sono rifiuti. Avrebbe voluto avere una Pilar a cui dedicare le sue parole, come Saramago, una donna che avrebbe avuto la forza di leggerle, riconoscerle e sentirle sue. Una sorta di Gertrude Stein, ma che lo facesse per amore, non per lavoro. Sull’autobus numero 6 il mattino era un inferno. Bambini che schiamazzavano, ammassati l’uno sull’altro, studenti, lavoratori, signore agghindate in pompa magna per il mercato o la prima messa quotidiana. Si sedeva sempre al solito posto, vicino all’ingresso posteriore, con la sua tuta da lavoro, la testa alta a osservare quelle persone piene di vita. Lui, stanco, avrebbe voluto solo un po’ di tranquillità. Aspettava l’autobus, il numero 6, col suo cappotto marroncino. Controllava i suoi profili Facebook e Instagram, leggeva le notizie del giorno. Aveva del tempo in quel momento, prima di cominciare l’ennesima intensa giornata di lavoro. Non poteva non fermarsi a guardare i reel pubblicati da ballerine professioniste. “Avrei dovuto tentare”, ma il condizionale è il tempo della resa. La fortuna voleva che la scuola fosse proprio qualche centinaia di metri prima rispetto casa sua, quindi non conobbe mai il marasma di ragazzi e bambini di prima mattina. Non era mai sceso dall’autobus in quel pezzo di strada, ma quel giorno voleva camminare un po’. Non era ancora stanco. Stava rileggendo le pagine del suo taccuino. Parlavano di amore e donne, sesso e corpi. Pensava che ci fosse qualcosa oltre la semplice sintonia, qualcosa di più viscerale, intimo, non con gli altri, ma con se stesso. Eppure serve l’altro. Serve sempre un altro per conoscere se stessi. Serve per scontrarsi col muro della coscienza, con lo stigma dei propri pensieri che non permettono di accettarsi poi così tanto, di indagarsi così a fondo. Prendere le distanze dalla ragione, a questo serve l’amore e lui lo cercava oltre ogni cosa. Ne era sicuro: avrebbe dato nuova linfa alla sua scrittura. Premuto il tasto della fermata, si mise in attesa di scendere. Sarebbe passato dalla cartoleria a comprare qualche penna, qualche nuovo foglio. L’autobus si fermò. Aprì le porte. Lui scese, lei salendo, urtò contro la sua spalla, si girarono entrambi, si guardarono, “scusami tanto” pronunciarono insieme. Accennarono un sorriso e poi voltarono le spalle. Lui mise le mani dentro la giacca, lei si sedette soavemente sul sedile. L’autobus passò, lui stava camminando a testa china, lei controllava il suo cellulare. Certe vite si mescolano anche solo per un secondo, destini scritti a cui si oppongono le pressioni della quotidianità. Stava cominciando un’altra giornata, stavano continuando la propria vita, come tutte, come sempre.
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