Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Il cofanetto delle cose di dopo
di Scorpio
Camminavo per strada lentamente. Il cielo era un rosso vivo misto all’ambrato mattutino, così presto ed ero già in giro. Camminavo e intorno a me niente di nuovo. Chi andava di fretta poteva comodamente teletrasportarsi senza aver paura di arrivare in ritardo. Le strade brulicavano di passi assenti, ci si confondeva a testa bassa, tutti con lo sguardo puntato verso l’ultimo apparecchio di nuova generazione: gli occhi erano fondamentali, sbloccavano il sistema tecnologico e per questo motivo dovevano rimanere fissi sullo schermo, guai deconcentrarsi. Quel giorno ero pensieroso, stavo notando quella che da anni era la normalità.
Le vetrate dei grandi grattacieli stavano schiarendo sempre di più il paesaggio. I ragazzi come me cominciavano la prima ora di lezione, ma prima di arrivare davanti al cancello di scuola vedevo i più piccoli avvicinarsi all’entrata. Così in miniatura ma già capaci di tutto: erano cresciuti con delle nuove apparecchiature che si installavano nelle case sin dai loro primi anni di vita, si chiamavano “futura”, un piccolo cubo che seguiva il bambino già da piccolo in ogni suo passo, registrando l’obiettivo raggiunto a ogni nuova cosa imparata o superata, come in un vero e proprio vecchio videogioco. I genitori con lo sviluppo accellerato del nuovo mondo non sempre potevano essere presenti, erano pieni di impegni e dovevano assicurare una crescita in tutti i campi del nuovo mondo, così per la crescita del bambino si cercò di utilizzare questo rimedio.
Passeggiando, feci caso a una donna che era solita sedersi su una panchina. Quella mattina mi avvicinai curioso e le chiesi perchè guardava sempre fisso in quel posto, verso l’orizzonte. La donna non mi rispose subito, ma io imperterrito rimasi seduto, fin quando mi chiese se fossi ancora lì. Dal modo di fare capì che era cieca. Capì anche che probabimente io avevo fatto una gran brutta figura nel chiederle cosa ci fosse da guardare. Così mi girai anch’io verso l’orizzonte poco prima di rispondere. Nonostante fosse un tratto di strada che percorrevo sempre per andare a scuola, non feci mai a caso a quel posto: a guardarlo bene notai che era l’unico tratto incontaminato, pieno di verde. Bastava scorgersi un po' più a destra per notare un’aiuola con dei fiori, nascosta, nessuno la curava più. E poi quell’orizzonte, dove il definito e l’indefinibile si interscambiavano facilmete in un armonia di luci. La donna mi disse che le bastava sedersi e immaginare per stare bene. Purtroppo in un mondo dove la vista sbloccava ogni sistema di apparecchiature e permetteva anche una certa autonomia, lei non poteva vedere, ma di questo non sembrava preoccupata, pittosto le sarebbe tanto piaciuto sapere cosa ci fosse in quel tratto e com’era esattamente il mondo che la circondava. Dovevo risponderle. Potevo raccontarle che il mondo qui non era cosi male: si era evoluto tanto, se negli anni precedenti si erano gettate le premesse per evolverlo, finalmente ora si erano qusi raggiunti tutti gli sviluppi, ma io volevo rassicurarla. Volevo spiegarle che il tratto incontaminato dove inconsapevolmente si fermava ad ammirare, era lo scorcio più puro della città. Così iniziai a descriverle che ciò che si trovava lì era sparso per tutto il resto della città. Le persone leggevano ancora libri mentre camminavano per strada, che per scrivere si usava ancora la penna che scorrendo emanava il profumo della carta. A volte si faceva ritardo e in conpenso si guadagnava un’emozione: la paura di non essere in tempo. E infine conclusi: ‘’Immaginare a volte è meglio di vedere, perché permette di guardare anche oltre l’orizzonte’’.
La signora si voltò e ci ritrovammo faccia a faccia. Non ero più abituato a questo tipo di confronto, dopo tanto vidi qualcuno che anche se non ne avesse la possibilità, si sforzava comunque di guardarmi dritto. D’un tratto mi ritrovai tra le mani un cofanetto.
‘‘Tieni, qui ci sono le cose di dopo’’- mi disse lei.
-‘’Le cose di dopo?’’
E lei continuò: -‘’Si, sono degli oggetti simbolici. Ognuno di questi indica una storia. Si conservano nella speranza che l’emozione che rappresentano si conservi nel futuro. Sono oggetti appartenuti a persone, li hanno stretti, portati con sé, adulati. E tu, dovrai prendertene cura, aggiungere un tuo oggetto e quando te la sentirai, passare il testimone.’’
Carlo aprì il cofanetto e si rese conto di quante semplici cose ci fossero, tra queste un vinile, di quelli che si usavano per fare un lento o un calamaio pieno di inchiostro, chissà quante emozioni avrà tradotto pensò tra sé e sé.
Carlo d’un tratto sobbalzo’. Sudato. Ansioso. La prima cosa che fece fu quella di infilare la mano sotto il letto per verificare che il cofanetto fosse al suo posto. Era solo un sogno. Si preparò in fretta e uscì subito di casa per incamminarsi verso scuola. Ma quel giorno fece una cosa mai fatta prima, si fermò davanti lo scorcio e scese gli scalini che avrebbero portato di sotto. Iniziò a scavare velocemente in profondità, senza arrestarsi un attimo, fin quando cacciò dallo zaino il cofanetto e lo nascose sotto terra. Risalì e prima di rimettersi a camminare si mise a guardare il panorama. Incantato, pensò che in questo modo il cofanetto sarebbe stato al sicuro. Gli era stato regalato dalla nonna, la massima personificazione del passato e futuro. La nonna gli aveva spiegato che quello non era un semplice portaoggetti, ma un contenitore delle cose di dopo, delle cose autentiche.
Erano passati anni, e l’aiuola dove era stato nascosto il cofanetto stava creando un immenso giardino di fiori. Il piccolo scorcio si stava ormai espandendo e stava ridisegnando completamente la città, ne erano tutti sconvolti. Carlo aveva capito che più di passare il cofanetto a una singola persona, l’autenticità e le emozioni che vi erano contenute andavano tramandate a chiunque. Carlo, aveva capito che fra tutti gli sviluppi possibili di qualsiasi mondo, solo uno consiste nella vera evoluzione: non perdere mai l’umanità.