Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Là fuori
di Nicole
Lunedì 23 novembre 2065
“Samantha! Sveglia raggio di sole, è lunedì!”
Sei dolce Alexandra, ma dovresti lavorare ancora un po’ sull’espressività. Eppure un mio collega ha perso la testa per una come te. Questi sistemi operativi vocali a quanto pare sanno essere delle sirene ammalianti, come se la competizione femminile non bastasse! Ma che si prendano anche l’ultimo umano irsuto sulla terra, da quando è esplosa la moda dei tattoo di peluria a forma di unicorni, quadrifogli o Che Guevara ho deciso di morire sola e gattara (questi nuovi felini OGM sono incredibilmente affettuosi). Temo solo che la sirenetta vocale di turno possa soffiarmi il lavoro, non vorrei cadere nel giro del furti di dati sensibili per pagare le rate della mia nuova 500 decappottabile rosso fiammante - la Jessica Rabbit dei monopattini invernali-.
Quella di noi psicologi è finora l’unica professione tradizionale ad aver vinto la prova del tempo uscendone più gloriosa che mai: la depressione è pur sempre la regina indiscussa del nostro secolo, e dagli anni venti si contende lo scettro con la sociopatia ed altre eredità della grande pandemia -le mie sono solo nozioni accademiche, ma i miei genitori l’hanno vissuta da bambini e sospetto trovino catartico declamare tronfi quanto i giovani d’oggi non conoscano i veri sacrifici, scatenando puntualmente la derisione dei nonni e l’ira del suscettibile bisnonno Cataldo. Quando si innesca questo dibattito mi defilo cautamente per non dover schivare i lanci di pernacchie e dentiere, ma soprattutto perché da un’analista ci si attenderebbe un’autorevole controtesi. Non ho mai nascosto di essere nata nell’epoca sbagliata. Si dice che prima della famosa crisi sanitaria ci si abbracciasse persino tra conoscenti, e che i più impavidi picchiettassero il braccio dell’interlocutore - di questo onestamente posso fare a meno, e a dirla tutta non nutro la minima smania di essere circuita da braccia estranee… probabilmente quella catastrofe ha riscritto il nostro DNA, ma resto comunque distaccatamente affascinata da quella naufragata ricerca di contatto umano- . Ad appassionarmi più di tutto sono in realtà gli aneddoti dei mei nonni, valorosi testimoni della vita prima dei social. Loro sì che possono raccontare a testa alta il loro primo incontro, mentre oggi non c’è alcuna trama, la dinamica è sempre la stessa per tutti: un rapido scambio di feedback e infine l’atteso GIF di un orango ammiccante, per le più fortunate. La mia progenie non merita un racconto di così bassa levatura! Questa mia ossessione potrebbe aver velatamente inciso sulla scelta del partner (non rinnego il progetto di morire gattara, attendere il ritorno dal mio amato semi-nomade mi mantiene perfettamente in linea con il piano iniziale). Come dimenticare quel meraviglioso giorno in cui il novabus ha preso fuoco costringendo me e gli altri malcapitati passeggeri a strappare lo sguardo dai nostri display per metterci in salvo! Per l’esattezza la maggioranza ha continuato ad impugnare lo smartphone per un’imperdibile diretta social, ma è lì che è avvenuto il mio leggendario incontro con Enea. Sentivo che quel nome non poteva essere un caso e non mi sbagliavo, non tanto per l’epicità del momento, quanto perché il suo stile di vita si è ben presto rivelato piuttosto affine all’eroe troiano: una giostra di travolgenti avventure in giro per il mondo; quanto a me, come una moderna Penelope non ho mai smesso di tessere la mia tela riuscendo ad ignorare i proci del mio tempo, ma non di certo il loro terribile senso estetico. Di Enea ho sempre ammirato il coraggio della libertà. Mentre lo immagino varcare ogni giorno le colonne d’Ercole mi sento una terrapiattista che teme di precipitare dal bordo della Terra (incredibile che nel 2065 i terrapiattisti esistano ancora). Non serve la psicanalisi per capire che uso le mie incrollabili convinzioni come fortezza da cui commentare il mondo esterno (vorrei poter dire ‘dalla torre più alta’, ma ricordo più gli anziani davanti ai cantieri). Persino la mia professione è frutto di una scelta di comodo: un percorso spinto per inerzia dal motto di famiglia “scegli informatica o psicologia oppure va’ a raccogliere dati nei campi virtuali per pagarti la retta”, senza troppa convinzione né di avanzare né di retrocedere, ma con la presunzione di considerarmi una promessa mancata del giornalismo. Non ho mai perdonato al fato o a chiunque abbia mai incrociato il mio cammino di essersi frapposto tra me e il mio Premio Pulitzer, come se avessi mai scomodato un neurone o un muscolo in quella direzione.
Maledizione non sono ancora scesa dal letto!
Sabato 28 novembre
Finalmente un pranzo tête-à-tête da nonna Amalia, la mia più grande confidente. È l’ora dell’immancabile dolce molecolare al cioccolato, una specialità del suo robot e soprattutto un sacro rituale in attesa del nostro show preferito. Ricordate quando ho confessato di non aver mai mosso un muscolo verso il mondo del giornalismo? Avevo tralasciato lo sforzo di digitare Canale 7 alle 15:00 per venerare Achille Fulgenzi, il reporter più colto e avventuroso tra gli inviati under 35 di bell’aspetto. Come sempre nonnina si lascia andare a commenti poco ortodossi e mi solletica un’idea di cui non vado fiera: possibile che non abbia mai curiosato sul suo profilo social? Con incontenibile frenesia della mia fedele compagna digito il nome del nostro beniamino. Ne ero certa! Quelli fuori portata sono esattamente come la tua fantasia li dipinge: nessun selfie autocelebrativo e nient'altro che meravigliosi post di viaggi. Completamente rapita da un video sugli aborigeni scrivo senza quasi accorgermene ‘ questo è il mio sogno ’ e poi inizio a sparecchiare, ma balzo all'indietro all'urlo di nonnina: “San Carlo Acutis protettore di internet aiutaci tu!” Mi giro e assisto ai repentini cambi cromatici del suo viso, finché mi mostra la notifica sul mio smartphone: “Come mai è solo un sogno?”