Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Analogici
di Sara Formisano
Si chiamava La casa dell’analogico, un centro di recupero dove l’hi-tech non aveva accesso. Entrando era obbligatorio lasciare all’ingresso in una cassetta di sicurezza numerata i propri effetti personali: smartwatch, cellulare, tablet e tutti i dispositivi entrati in commercio dal 2010 in poi. Ciò che aveva rovinato l’esistenza della civiltà era la spasmodica attenzione per quegli aggeggi che producevano uno scollamento dalla realtà. Si era poi riscontrato un abuso degli stessi a scapito del lavoro, della creatività e delle singole personalità. Eravamo diventati un esercito di automi senza personalità che seguiva in massa le mode del momento dimenticando il proprio gusto personale.
Le case dell’analogico erano luoghi di riabilitazione in cui ripristinare gusto e personalità andati perduti nei primi 40 anni del secolo 2000. Di solito i clienti sceglievano volontariamente di ricoverarsi per un periodo e ciò accadeva in seguito a un evento determinante occorso proprio a causa di uno scollamento. Per ognuno è diverso, c’è chi perde via via la concentrazione, prima a lavoro e poi in famiglia non riuscendo a fare nient’altro che contenuti per i social network; c’è chi diventa aggressivo parlando con toni accesi anche quando non ce ne sarebbe bisogno; c’è poi il tipo peggiore, quello che inizia a considerare il tempo scandito non più in minuti ma in secondi pretendendo la stessa velocità della messaggistica istantanea. Questo personaggio finisce per essere estremamente impaziente tanto da non riuscire a tollerare neppure il minuto di attesa. A subire in prima persona gli effetti di questa patologia sono soprattutto parenti e amici che talvolta si rivolgono a questi centri per chiedere aiuto. È stato così anche per Stefano che vi era entrato all’età di 35 anni ed era ancora lì, adesso che stava per compierne 42. Greta, la direttrice della casa, una delle fondatrici del sistema di recupero, rappresentante della resistenza alla tecnologia gli stava organizzando una festa di compleanno. Poteva scegliere l’annata che preferiva. Di solito questa cosa non veniva concessa ai residenti, in base a un quadro clinico accurato, fatto di analisi e prove, si stabiliva il decennio di riferimento, partendo dagli inizi del Novecento per arrivare ai primi dieci anni del Duemila. Una volta scelta la stanza temporale vi si lasciava il paziente per circa una settimana, ma dipendeva molto dalla reattività del singolo, in una sorta di ritiro spirituale durante il quale poteva prendere dimestichezza con il mondo creato all’interno della stanza. Il paziente poteva scegliere cosa portare con sé in quella che sarebbe stata la sua stanza personalizzata.
Non si abita una stanza sola una volta che si entra si viene assegnati a stanze diverse aspettandosi che in ciascuna di queste vi sia una parte del sé perduto. Ciò anche per evitare che il paziente si leghi troppo a un decennio finendo per cadere nello stesso schema malato dal quale cerca di uscire.
Prima di entrare nella casa gestita da Greta, Stefano aveva dimenticato come si scriveva a mano libera. Era talmente abituato alla scrittura veloce digitale che non era più in grado di impugnare la penna per scrivere. Questa e altre forme di “disabilità” o “analfabetizzazione” acquisita facevano parte della vita di Stefano e di altri come lui. Tra gli scopi del suo ricovero c’era anche il recupero di certe facoltà.
Mancavano poche ore alla festa ma Stefano non voleva festeggiare. Era solo più vecchio di un anno, che senso aveva? Si ritrovava sempre a tirare le somme dei traguardi raggiunti e puntualmente conveniva che la cosa migliore sarebbe stata non nascere. A che punto era della sua vita? In un centro riabilitativo per hi-tech addicted.
Pensa ancora alla sua ex Valentina e si immagina sposato con lei. Ci stava pensando anche adesso mentre si appuntava i bottoni della camicia bianca a mezza manica su un paio di jeans scoloriti e guardava il suo viso, le rughe d’espressione, i capelli bianchi sparsi a formare una sorta di nevicata sul nero originale e alcuni peli bianchi qui e là sulla barba.
Una cosa aveva ritrovato da quando era lì: il cubo di Rubik. Suo fratello maggiore, Paolo, ne aveva uno e lui ci giocava di nascosto. C’erano incise le iniziali del fratello. A Stefano piaceva rubarglielo; Fare qualcosa di proibito dava un gusto in più alla sfida di comporlo. Quando Paolo lo completava si divertiva a scomporlo e lasciarlo così.
Paolo era metodico, vago e con le sue fissazioni, usciva poco e aveva solo un amico. Era lento e ai tempi della scuola si era parlato di autismo ma una diagnosi non fu mai fatta. I suoi preferivano non sapere.
Gli mancava Paolo, ricordava i suoi occhi mortificati e pieni di lacrime quando a scuola lo presero in giro per quel video che Stefano aveva fatto girare sul web per superare una sfida.
Quegli occhi li vede ogni giorno.
È il momento delle candeline, Greta ha proprio messo le candeline sulla torta, non il numero che dichiara subito il tempo passato, sono verdi, da tempo non si portano l’azzurro e il rosa. Preferisce che stiano tutte lì sparse così per sapere quante sono devi contare. Soffia sulle 42 fiammelle che si spengono sulle note di buon compleanno. È il momento dei regali e questo momento lo imbarazza. Non gli piace essere osservato mentre scarta il regalo e poi se non gli dovesse piacere, simulare una qualsiasi forma di felicità è tremendo. Il primo pacchetto è una scatola di mattoncini lego, qualcuno deve essere stato informato della sua passione per le costruzioni. Il secondo è più leggero ma non meno nostalgico del primo, un gioco da tavola, Indovina chi? Il terzo regalo è un sacchetto blu di velluto, scioglie il cordoncino che lo stringe e vi infila la mano. Lo sente subito, riconosce la scalfittura e quell’angolo smussato. Estrae l’oggetto con trepidazione e quando se lo trova davanti fatica a nascondere la commozione. Alza lo sguardo per scorgere tra le facce sorridenti dei suoi compagni gli occhi di Paolo ma non li trova.