Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
La pelle sottile
di Fiorenzo Foglia
Tre mesi dopo il mio quarantesimo compleanno iniziarono gli incubi.
Mi svegliavo nel terrore, con gli occhi sulle cifre stralunate che la sveglia proiettava sul muro, pensando che era tardi e la vita ormai mi sfuggiva. La seconda ondata del Covid era finita ed era iniziata la campagna di vaccinazioni, qualcuno non voleva, qualcuno protestava, ma insomma, pensavamo di avviarci alla normalità: sapete invece come è andata, e ora lo so anche io dopo i sei mesi di sonno che mi hanno portato alla mia situazione attuale.
Io ci provavo: raggiungevo le ore libere rimaste dal lavoro e mi spiaggiavo su quella striscia sottile di tempo, libero come un selvaggio, così pensavo, libero di fare, di capire, di essere.
Chi o cosa, però, non lo sapevo.
Mi aggiravo per casa, cincischiavo, guardavo la televisione – si poteva ancora fare liberamente, non c’era il contatore vicino – e infine era ora di dormire e andavo in camera da letto a leggere la mia condanna scritta in cifre deformi sul muro.
Avevo letto della sperimentazione congiunta sino-europea sul vaccino totipotente contro i Coronavirus seduto al bar nella piazzetta dell’Università. Mi mentii e mi dissi che sì, insomma, partecipare era un modo per smuovere l’acqua morta che avevo dentro, che era “un segnale” – usai anche questa paravento che sostituisce all’azione un suo feticcio. Ne parlai a Gennaro, che mi aveva raggiunto davanti al bar. Sorrideva della mia idea e tirava dalla sigaretta incastrata tra l’indice e il medio tenuti dritti, un gesto incongruo, da diva. Mi disse di farmi venire una normale crisi di mezza età. Trovati una ragazza, fu la sua ultima frase, con una donna nella testa non pensi a nient’altro.
Arrivai al centro sperimentale superando un capannello di persone a minacciosa distanza da una camionetta della polizia. Fui fischiato quando attraversai la porta d’ingresso. Il dottore che mi accolse disse che protestavano contro le sperimentazioni portate avanti lì al centro. Assentii: i giornali parlavano di migliaia di casi di risposta autoimmune al vaccino. Mi disse che aveva paura per il suo lavoro di scienziato. Gli tremavano le mani.
Al mio risveglio c’erano tre dottori ai piedi del letto. Mi passai una mano sulla faccia liscia – mi avevano fatto la barba, pensai. Mi dissero che il dottore che mi aveva accolto aveva preso una terribile, terribile decisione senza il mio permesso. Hanno parlato di espianto delle gonadi, di isteroplastica e coleoplastica, e di una abrasione riduttiva delle masse muscolari e una limatura di quelle ossee. Parlavo con difficoltà, la voce virava al falsetto. Non capivo. Con il respiro corto mi alzai a sedere, con un movimento inaspettatamente leggero nonostante il torpore, ma sentii della massa grassa rimbalzare addosso, segno, pensai, del tempo passato immobile.
Mi dissero che ora ero una donna.
Mi sono fattǝ forza oggi, e sono uscitǝ di casa. Tengo gli occhi bassi per evitare lo sguardo degli altri, e non so se è disagio per il mio corpo nuovissimo o è il mio corpo a chiedere una circospezione che prima non conoscevo.
Sento caldo e non è il sole di Maggio, ma la leggera febbre dovuta al vettore XX-cromosomico in circolo: sparirà quando non rimarranno più cellule target maschili. Pochi giorni e nemmeno una biopsia potrà dire cosa ero.
Ho supporto psicologico, sedute di fisioterapia, fitness, meditazione, yoga. Qualsiasi cosa. Tutto, purché non li denunci. Quasi tutto: non posso tornare indietro. E non perché sia impossibile.
Ma perché è illegale.
Il DPCM sul Diritto Naturale è entrato in vigore il lunedì prima del mio risveglio. La moratoria sulle “pratiche scientifiche contro lo stato naturale” e il bando ai "farmaci prodotti per profitto". Almeno, mi sono risparmiato quello che c’è stato prima: le proteste, la Marcia dei Tre Milioni, la caduta del governo, il default... dormivo.
Cammino nell’aria tiepida, un profumo di gelsomino fa esplodere il ricordo di mia madre, Dio solo sa da dove viene. Il mio umore varia sottile e continuo, non è più un tono che disegna onde lente e lunghe; sono un pianoforte su cui il mondo si esercita, che mi tocca sulla pelle sottile. Mi passo una mano sul braccio liscio e nudo – la pelle non è la mia, mi hanno spiegato, mi hanno abraso il derma rimpiazzandolo con uno a grana più fine. Mi sento espostǝ, cammino sul palcoscenico su cui sono statǝ buttatǝ, ora so che le donne guardano le donne e gli uomini guardano le donne. E ho paura che gli uomini mi guardino. Perché lo fanno: i dottori hanno fatto un buon lavoro. Guardano... devo abituarmi a dire noi. Mi hanno detto che ho tre possibilità: scissione della personalità, comportamenti autodistruttivi, o accettazione. Devo abituarmi a dire noi.
Pensare è stancante, ma non posso farne a meno. A breve mi farà male la schiena, non è abituata a come è distribuito il peso ora, ma voglio continuare a camminare, fa sembrare meno fastidioso il ronzio nella mia testa che dice e sprona e disprezza e giudica e...
Mi manca il mondo di prima, fatto di oggetti atomici e slegati che gravitavano l’uno intorno all’altro in interazioni distratte, persone ed oggetti che non si intrattenevano in relazioni fitte, e se solo penso di spostare qualcosa trascino un viluppo di cause ed effetti e persone e cose. Il nodo gordiano è uno dei nodi minuti della tela di Penelope che tesso ogni giorno.
Ma in questa tessitura c’è il mio posto, in questa tela di ragno che mi collegǝ agli altri io vedo dove sono, e seppure ne avverta ogni vibrazione, e ogni tensione, e senta il terrore primitivo che un filo si spezzi – nonostante tutto, io ne sono il centro.
Sono arrivatǝ al bar davanti all’Università portata da una vecchia abitudine. Su una delle sedie di plastica c’è Gennaro. Rallento. Legge un quotidiano con le gambe accavallate e il suo modo elegante di tenere la sigaretta. Ha la fronte aggrottata, forse ha qualche capello bianco. Lo fisso.
Lui mi percepisce e alza lo sguardo dal giornale, mi guarda incerto. Non mi ha riconosciuto. Mi sorride.
Gli sorrido anche io.
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