Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
L'udienza
di Davide Ruffini
Il giudice indugiò ancora con lo sguardo su qualche appunto, fece un respiro di discreta profondità polmonare per la sua età e varcò la soglia dell’aula.
Dietro di lui entrò la corte.
L’imputato Rosario Torresi era stato fatto accomodare e attendeva l’inizio dell’udienza con un leggero prurito di impazienza sulla punta delle dita che per questo tamburellava, ma lente, sul banco.
Era ormai vecchio, vecchio pure per i nuovi progressi vitali – nella prima decade di quel maggio aveva compiuto 124 anni (ma ne dimostrava al massimo 80).
Aveva una sola vera preoccupazione: non addormentarsi.
Il giudice studiava da 35 anni il suo caso. In carriera aveva avuto il caso Mira e quello suo. 50 anni di onorata carriera, due casi in tutto. Alla fine di quel processo sarebbe andato in pensione, eppure sembrava ancora un ragazzino.
“Ma come facevano i giudici dell’èra precedente – pensava qualche volta ricordando suo padre (anche lui giudice) – a pronunciarsi su centinaia di misfatti? Come poteva un gelido magistrato permettersi di giudicare una vita senza conoscerla fin nelle fibre più celate, gelose, resistenti alla scoperta? Per forza c’erano tanti errori giudiziari! Oggi invece è diverso. Siamo tutti più ricchi e più vecchi. I ricchi si muovono poco. I vecchi, poi, non si muovono quasi per nulla. Seppure in forma, preferiscono stare fermi, immobili per giorni interi. Per forza che i reati sono rari, e chi si muove più? La Giustizia prospera. Si è arrivati perfino a garantire a ogni potenziale criminale un giudice esclusivo! Un giudice per crimine! Ma ci pensi?”.
Sorrise, poi fece un cenno al suo imputato perché iniziasse finalmente l’interrogazione.
Rosario si ridestò, avvicinò le labbra al microfono, disse il suo nome e giurò. In quel momento gli brillò negli occhi il riflesso di una pagina colpita dal sole. Doveva essere una pagina del dossier di mezzo miliardo di fogli su cui giudice e corte studiavano da diversi anni per emettere al di là di ogni microscopico dubbio la giusta sentenza.
Si fece forza. Non doveva addormentarsi!
- Giudice, giurati, sono lieto di avviare il processo che mi vede imputato per l’omicidio di mia moglie, Fioretta Rotella, avvenuto a Roma, l’8 agosto 2064, presso la nostra abitazione in Via ribelli del senso n. 9.
- Bene, signor Torresi, passi pure alle domande.
Il giudice era teso adesso.
- Sì, signor giudice. Chi ero io al momento dei fatti?
- Lei al momento dei fatti – rispose il giudice – era alto 1 e 85, aveva 88 anni e un peso di 71 kg; godeva di 10 decimi all’occhio destro e 8 e mezzo all’occhio sinistro. Era un noto scrittore. Titolo di studio: diploma liceo scientifico.
- Mia moglie?
- Sua moglie, Fioretta Torresi nata Rotella, era una donna alta 1 e 78, di 63 kg, 75 anni, godente di 10 decimi di vista ad entrambi gli occhi. Proveniva da una buona famiglia del frusinate; brillante e dinamica, era stata maestra in una scuola dell’Eur e giornalista presso alcune testate; dopo il suo successo, non aveva più lavorato. Titolo di studio: Laurea in Scienze della Formazione.
- Quando ci siamo sposati?
- Agosto del 2030.
- Al momento della morte di Fioretta da quanto eravamo sposati?
- 34 anni.
- Come definirebbe il nostro matrimonio?
- Dalle indagini è emerso che il vostro era un matrimonio felice.
- Qual era il dolce preferito di mia moglie?
- Un banale tiramisù al caffè con i savoiardi.
- E il mio?
- Un’altrettanto banale panna cotta ai frutti di bosco.
- Qual era tra i miei romanzi il preferito di mia moglie?
- Donna Rosalba del 2045. Sua moglie era legata alla figura della protagonista, ma soprattutto a quella di suo figlio Roberto che pur avendo per le mani un’occasione di rivalsa spreca tutto, dissipando in pochi anni il suo talento e la sua piccola fortuna. Di lei come scrittore sua moglie ammirava la capacità di raccontare personaggi falliti o sull’orlo del fallimento, marginali, incompiuti.
- Da quale momento mia moglie non ha più amato i miei libri?
- Esiste un corposo diario della Rotella che testimonia di un disamoramento per le sue opere a partire dal 2055.
- In seguito a…?
- In seguito alla pubblicazione di un paio di racconti (Il lavoratore e La fan) e del romanzo Lo spettro della borghesia. A dar retta allo zibaldone di sua moglie in queste opere lei già era in piena crisi e si reggeva in piedi solo grazie alle sue abilità tecniche. “Era un bel cappotto – sto citando – senza più nessuno dentro, al massimo una gruccia”.
- Come è avvenuto l’omicidio?
- La Rotella è stata strangolata.
- Chi è l’autore di questo delitto?
- L’autore è lei.
- Come avete fatto a capirlo?
- Si è costituito poco dopo il delitto. Gli esami scientifici hanno confermato la sua dichiarazione.
- E quale sarebbe, di grazia, il movente?
- Su questo punto, signor Torresi, saremo franchi: sono più di trent’anni che io e la corte studiamo il caso, ma non l’abbiamo capito.
- Eppure io l’ho spiegato in mille verbali e ad abundantiam ho scritto il mio ultimo libro, Troppo perfetto.
- Nonostante abbiamo letto a fondo i suoi verbali e squadernato il suo romanzo, non ci abbiamo capito un’acca!
- Lo trovo ben grave.
- Anche noi, ce ne scusi.
- Non c’è bisogno. Ve lo rispiego: avevo bisogno di fallire come i miei personaggi, vostro onore, di accartocciarmi per la disperazione, o almeno di provare la sensazione di perdere tutto, per un’ultima volta. Mia moglie lo sapeva. È per quello che mi suggerì di renderle pan per focaccia. E strangolarla. Lei aveva strangolato la mia arte, donandomi una vita felice, spingendomi verso un ineluttabile avanzamento sociale; era giusto che io strangolassi lei. Fu un tentativo che facemmo per far rinascere l’artista. Ma era troppo tardi. Eravamo morti entrambi.
- Non abbiamo capito.
- Lo immaginavo. Spero abbiate almeno raggiunto un verdetto.
- Ah, sì, signor Torresi, se lei ci promuove e abilita, sì, il verdetto ce l’abbiamo.
- Certo! Siete promossi e abilitati a giudicarmi!
- Bene: noi la condanniamo alla pena capitale!
- Alla buon’ora!
E lo portarono fuori che già dormiva come un bambino.