Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Le gabbie di Faraday

di Bleiz M. Del Sette

Alle volte penso che non mi pensi. Non esco da quattro giorni, fuori c’è una tempesta di sabbia. Le solite scuse. Mia madre dice che a furia di stare chiusi in casa si diventa matti. Ma lei è della vecchia generazione, quella con gli smartphone, le foto su Instagram, i bambini. Non ci sono più bambini qui, è strano. Ogni tanto ci penso quando passano i cargo dei razionamenti e mi chiedo come faremmo se avessimo dei bambini. Quelle storie tristi di guerra, di porzioni piccole e sacrifici eroici. Ma non ne sono rimasti più di eroi qui, c’è solo un sacco di sabbia, qualche reduce, c’è una ragazza che vende utensili in lega di titanio e non si sa bene dove li prenda, forse li ruba, però è carina e ogni tanto passo dal mercato centrale e la guardo mentre ripiega le scatole e mi ricorda di quella volta in cui abbiamo traslocato quando ero piccolo e penso che avremmo potuto traslocare anche io e lei, ma poi se ne va e non ci penso più.
Di solito non faccio colazione ma mi serve un motivo per uscire di casa. La tuta di contenimento si appanna sempre di inverno con gli sbalzi termici, nei modelli borghesi hanno messo una sorta di tergicristallo interno, certo che è incredibile come nonostante tutto ci sia ancora la borghesia, i poveri, le classi sociali. Non abbiamo più ossigeno ma possiamo ancora sfoggiare il nostro benessere comprando purificatori d’aria su Amazon. C’è un bar a quattro blocchi da casa mia, uno di quelli nuovi con le proiezioni della città di inizio millennio all’interno. Prima lo gestiva Franco, che era un anziano Gran Maestro di scacchi e aveva questa fissa di giocare una partita con ogni nuovo cliente. Diceva che se hai il coraggio di difendere un pedone con orgoglio allora sei una brava persona. La cosa divertente è che tutti avevano più o meno imparato a giocare a scacchi durante il decennio del blackout, anche perché non è che ci fosse molto altro da fare, quindi il bar di Franco era diventato piuttosto popolare. Ogni tanto facevamo anche dei piccoli tornei, ci sentivamo tutti un po’ soli ed era un modo come un altro per stare in compagnia. Franco riusciva sempre a recuperare del vino artigianale da qualche suo vecchio amico dell’università che non aveva mai finito, e che a differenza sua ora lavorava nelle serre biochimiche e mangiava la cosa più simile alle verdure che l’umanità fosse in grado di coltivare. Erano delle belle serate, ma alla fine nessuno pagava quasi nulla perché nessuno aveva soldi e a lungo andare Franco aveva dovuto vendere il suo bar a una di quelle start-up che ti chiedono se sei stanco di vedere sempre il solito panorama. Loro ti vendono un’esperienza, ammira ancora il nostro pianeta come dovrebbe essere e come ritornerà quando noi che siamo giovani, freschi e illuminati avremo investito tutti i soldi che hai speso in bevande sintetiche e nostalgia di bassa qualità nel nostro grande progetto per non fare assolutamente nulla se non dirti che manca pochissimo e intanto ti abbiamo migliorato gli schermi, così i rimpianti puoi vederli meglio.
Ma questo è l’ultimo locale rimasto in cui fare una cosa che assomigli vagamente a una colazione quindi tanto vale non pensarci troppo. So che in questi posti ultimamente si radunano dei piccoli club di gente della mia età, trentenni che passano pomeriggi a raccontarsi le loro adolescenze di fronte alle mappe interattive. È un passatempo come un altro, probabilmente meglio di starsene seduti a pensare a tutto questo come faccio io. – Ciao – con la tuta è difficile riconoscere le persone, non sai neanche bene se stiano parlando con te, ma penso che sia Carlo, uno di quelli del vecchio circolo degli scacchi – Oh, ciao, che ci fai qui? –. – Stavo per farti la stessa domanda – Carlo ride, o almeno sembra che rida, odio queste tute del cazzo. – Senti ma se ce ne andiamo un attimo in decompressione per parlare come le persone civili? –. – Volentieri, però lo sai che non funziona più come prima, 40 per mezz’ora, 60 per un’ora, e per gli standard che ho visto in giro è pure poco –. Ti vendono la normalità. Ti piazzano davanti dei video iperrealistici di giardini vecchi di vent’anni e poi se vuoi parlare con qualcuno senza dover stare in un fottuto scafandro devi pagare. Probabilmente le due cose sono finemente collegate.
Carlo è un bravo ragazzo, uno di quelli che l’adolescenza l’ha fatta durante il blackout, loro hanno un modo particolare di vedere il mondo. Hanno dovuto studiare sui libri che avevano in casa e le loro conoscenze sono spesso variegate e incomplete, ma non avendo altro da fare hanno divorato praticamente ogni cosa con delle lettere sopra, spesso capendo la metà dei concetti o interpretandoli con una fantasia che ogni tanto trovo incredibilmente apprezzabile. In fondo tutto diventa estremamente relativo quando il concetto stesso di conoscenza perde di significato. Sono anche terribilmente avvinghiati a una strana idea dell’amore, avendo fagocitato le uniche informazioni presenti sul tema da romanzi e fumetti. Questo li rende terribilmente curiosi. – Ma quindi con Clara? – curiosi e invadenti – Non lo so, non la sento da un po’, da lei sono in Faraday da mercoledì scorso –. – Io non l’ho mai capita questa storia delle gabbie di Faraday sui quartieri, avevo letto un po’ sull’argomento ma sinceramente non sono convinto – e noi che ridevamo delle mamme informate. Quando una cosa diventa normale è troppo tardi per renderti conto che non c’era niente da ridere. – Non lo so Charles, non lo so. Quello che so è che non so se mi pensa e questa cosa mi manda fuori di testa –. – Ma stai tranquillo, in fondo è sempre così no? Gli amanti lontani separati dalle difficoltà che passano le notti alla finestra ad aspettarsi e immaginarsi, ti invidio sai –. – Probabilmente hai ragione, ti prendi un caffè? – ma in fondo non penso che abbia ragione, senza un futuro hai poco da immaginare che non sia effimero e finisci per stufarti in fretta. E lo so anch’io e in fondo non ti penso spesso. Però sarebbe bello poterlo fare.

 

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