Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Ricorderemo Aprile

di Gwìn

Ricorderemo Aprile

«C’è una cosa, del 2050, che proprio mi manca». Uno dei due anziani, quello visibilmente più vecchio, si rivolse all’altro comandando una lieve torsione al collo in grafene. Nei suoi occhi, un dolce e profondo sguardo. Le mani erano secche, ferme su un tastierino olografico. Un breve fremito d’emozione era affiorato dalla sua voce, altrimenti monotona.
Si trovavano seduti su ampie poltrone grigie, levitanti, sospese a pochi centimetri dal pavimento del salotto. Alcune lampade fotocatalitiche diffondevano un disegno di reti violacee sulle pareti, che intrappolava i toni algidi del mobilio.
L’uomo più giovane si strinse nelle spalle, sorridendo curioso: «Cosa ti manca, papà?». Nel mentre, un braccio della poltrona iniettò una soluzione fisiologica nel polso del padre. Rispose lentamente: «Il mio Musicatore Adattivo di Livello Entropico. Tutti lo chiamavamo MALE, per farla più semplice». Scandì le parole tanto distintamente, che sembrava di voler assaggiare i propri suoni sintetizzati. Suo figlio era già alla ricerca di quell’oggetto nel proprio dispositivo ipodermico di realtà aumentata tetradimensionale.
Sfiorando il lobo dell’orecchio destro, l’anziano aggiunse: «A pensarci bene, in effetti, forse era più una cosa da 2040. Ma ho appena proibito alla mia intelligenza artificiale di creare un ricordo nella mia mente su questo argomento. Ci sono cose che preferisco scordare vagamente. Il MALE è una di queste». Ronzii sommessi, provenienti dalle pareti opache del locale, accompagnavano la conversazione. Di fatto, lì, nessuno era presente fisicamente. Quel dialogo avveniva su due superfici virtuali trasparenti, dalle quali si proiettavano le immagini, i suoni e gli odori dei due interlocutori. Di tanto in tanto, secondo una tempistica cadenzata, un cubo emetteva dei fasci infradescenti lungo il perimetro della stanza, dall’alto verso il basso, che si estendevano gradualmente fino al centro dello spazio. Si trattava di un meccanismo programmato di sterilizzazione dell’ambiente.
«Non ci ho mai visto niente di speciale nel MALE, a dirla tutta. Perché ti piaceva così tanto?», chiese interdetto il figlio. Dopo una breve pausa di concentrazione, il padre rispose: «Perché ti bastava attivarlo per sentire la musica più adatta al tuo umore. Quella roba ti leggeva dentro. Era come tuffarsi in un buco nero e poi riemergere in una dimensione parallela, schizzando fuori da un buco bianco».
I due conversarono attraverso buona parte del pomeriggio, fino a cena. Inghiottirono alcune pillole liofilizzate di alga e medusa, accompagnate da acqua arricchita e soluzione fisiologica. «C’è una cosa che non mi hai mai raccontato, papà». Un androide era appena entrato nel salotto per una breve manutenzione allo sterilizzacubo. «Cosa, figliolo?». Il rumore di una saldatura a freddo intervallava il colloquio tra i due anziani. «Siamo mai riusciti ad abbracciarci? Dico io e te, magari anche la mamma», aprendo i palmi delle mani, quasi a giustificarsi della domanda. «Intendi con le braccia, come si faceva mezzo secolo fa?», mimando il gesto. «Sì, pensavo proprio a questo». L’androide, intanto, usciva dalla scena smaterializzando una porta nel muro. Il padre si sfiorò il lobo dell’orecchio sinistro, con un’espressione d’incommensurabile tenerezza. «Ho appena trovato qualcosa nel mio supporto mnemonico. Te lo sto trasferendo con il programma di telepasìa». Indicò il visore osmotico con l’indice puntato in avanti. «Guarda che me ne sono accorto, che hai appena creato un nuovo ricordo. Avrò settant’anni, ma non sono mica rimbambito!». Lo disse al padre scrollando la testa, a metà tra l’offeso ed il deluso. «Ed allora…che problema ci sarebbe? Anzi, sono felice che tu l’abbia notato. Il bene, almeno quello, voglio rammentarlo nitidamente». Il trasferimento sensoriale fu completato in pochi secondi, rendendo la memoria fruibile per entrambi. «Grazie, papà. E’ meraviglioso vedermi così piccolo, che mi tuffo nel vostro grande abbraccio». Esperenziare l’evento rilassò immediatamente le sue sopracciglia tese. «Ti importa davvero, adesso, che questo ricordo sia reale od inventato?», lo incalzò delicatamente il vecchio. «E’ difficile dirlo. Ci devo pensare su». L’immagine tremò brevemente a causa di un difetto di connessione. «Lo credo anch’io», gli fece eco il padre. Il figlio esitò un attimo, poi si lasciò andare ad una nuova domanda: «Riusciremo ad abbracciarci ancora, anche solo una volta?». «Intendi con le braccia, come si faceva mezzo secolo fa?», mimando il gesto una seconda volta. «Sì, pensavo proprio a questo», sorrise di rimando. Il padre abbassò le palpebre, interrompendo la sintetizzazione della propria voce. Pronunciò le parole a stento, con una sottile tonalità rauca: «Il nostro ricordo è ora dentro di te. Se lo vuoi, ti accompagnerà per sempre. Cosa cambierebbe, in fondo, tra un abbraccio fisico ed un abbraccio immaginato?».
Rimasero per qualche istante in silenzio. Dopodiché, con una lieve pressione contemporanea sulle proprie pulsantiere, attivarono insieme il MALE. Le loro proiezioni, stratificate a ridosso della frequenza cerebrale di ciascuno, si fusero sulle carezzevoli note di uno standard jazz del secolo precedente. Autumn Leaves, suonato dal quintetto di Cannonball Adderley, riempì poco a poco il vuoto del salotto. «Sai che mio padre nacque ad Aprile? Ed anche io, tempo dopo. Poi, sei venuto tu. Stesso mese». Lo disse al figlio con un tono paziente e soddisfatto, come se dichiarasse una sentenza di successo dopo due generazioni d’attesa. «Certo che lo sapevo, ma non ho mai considerato questo collegamento tra noi». Annuì alla propria stessa osservazione, mentre il padre aggiunse: «L’universo ci fornisce innumerevoli probabilità, dunque tutto è possibile». «No, papà, io non credo sia l’universo», ribatté l’altro. «Ed allora cos’è secondo te, figliolo?».
Dagli schermi illuminati, tra i riflessi violacei nella stanza, nessuno dei due diede una risposta. Bastò loro sentire l’assolo finale della tromba.

 

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