Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
L'ospedale dei pazzi
di Stilografo
Nel sogno che feci durante la mia ultima notte, quella prima di abbandonarmi alla rassegnazione, accadde qualcosa che ricorderò per sempre. Ricordo un edificio, bianco come un lenzuolo di seta e perfettamente simmetrico nel suo intreccio di geometrie pulite, che se ne stava addormentato sul mantello d’erba ancora uggioso, bagnato soltanto dalla fioca luce di una luna sfaticata. Il mio pigiama blu era dipinto di stelle argentee, chiare quasi come il bagliore della sfera appesa al cielo. Mi avvicinai alle porte di vetro opaco e queste si aprirono da sole, scomparendo ai lati dell’ingresso; avanzai un passo e la frescura dell’ospedale mi avvolse come una coperta appena tirata fuori dall’armadio.
C’era un gran viavai per i corridoi lucidi della struttura; le infermiere, nascoste nei loro vestitini abbottonati color panna, inseguivano di gran lena alcuni anziani scalzi che si davano parecchio da fare per non farsi acciuffare. Alcuni di questi intrattenevano importanti e sostenute conversazioni con le piastrelle dei muri, mentre altri ballavano e cantavano sui tavolini di cristallo. Ero piuttosto spaesato. Nella mia testa non riuscivo a dare un senso allo spettacolo che era in atto, così decisi di avvicinarmi all’unico uomo serioso della grande stanza d’accoglienza: sprofondava nell’apparentemente morbido divano scuro che spezzava il bianco pulito dell’ambiente. “Scusi, cosa succede qui?” Lui mi guardò e fece spallucce. “Non credo sia poi così importante, sbaglio?” Non che avesse tutti i torti, ma io insistetti; volevo sapere. “Per me lo è, purtroppo sono nato curioso”. Sospirò abbassando la testa che non nascose un’ormai pronunciata calvizie. “La curiosità non porta mai a nulla di buono: domande, pensieri, idee… lascia perdere, è meglio”. Prima che potessi ribattere, dall’ammasso disordinato di gente che si trascinava, saltava e correva di qua e di là, emerse una giovane infermiera con un’espressione molto preoccupata stampata sul volto curato. “Mi scusi… ma lei è per caso malato?” I suoi occhietti vispi e speranzosi sembravano essere alla ricerca di una risposta precisa. Mi guardai un po’ intorno senza sapere cosa dire, in fondo ero estraneo a quell’ambiguo e curioso ecosistema, quindi scelsi l’ovvietà. “Credo di sì. In fondo, questo è un ospedale, no?” Notai una profonda amarezza e delusione, oltre ad un crescente tremolio di panico. “Davvero è malato? E cosa ci fa qua dentro?” Il vecchio seduto sul divano sghignazzava, ma io non riuscivo ad interpretare le loro reazioni. “Come sarebbe a dire? È normale che voglia curarmi in un ospedale”. Lei costruì una maschera di indignazione sul suo viso, una delle più inquietanti ma sincere che avessi mai visto. “Sta scherzando? Cosa ce ne facciamo di ricoverare dei malati? Qui ci sono solo persone sane, se accettassimo anche chi non sta bene, finirebbero tutti per ammalarsi!” A giudicare dal tono convinto con cui pronunciò quelle parole, capii che non stava scherzando. Spontaneamente, scoppiai a ridere. “Un ospedale che cura i sani e non accetta i malati? Scommetto che vi date un gran da fare!” La signorina sembrò spazientirsi e si addentrò nel labirinto di corridoi seguita dal suono pungente dei suoi tacchi a spillo. Mi urlò di rimando, avvilita, come se in quel momento io fossi il più grande male del mondo. “Questo posto non è mica un circo, sa! Se non si allontana da solo, chiamerò la disinfestazione!” Pensai che non avrebbe potuto essere null’altro, se non uno spettacolo circense.
Sono sempre stato un po’ dispettoso, ma la scena che avevo davanti era così esilarante che decisi di affossarmi nel divano insieme al vecchio sghignazzante, in attesa che mi buttassero fuori a pedate. “Lei cosa ci fa qui? Si fa curare come quei giovani arzilli che saltellano e si fanno inseguire delle infermiere?” Lui mi guardò esibendo un sorriso ironico come le mie parole. “Aspetto che mi ammettano, devono accertarsi che io stia bene”. Il trambusto era davvero insopportabile, sembrava di essere ad una festa per bambini. “Chi è che se ne deve accertare?” Indicò in alto con il pollicione intorpidito dall’età. “Sopra? Chi c’è al piano di sopra?” Scosse lentamente la testa. “No, molto più in alto”. Feci spallucce. “Dio?” L’uomo vomitò una risata famelica e grottesca. “Al giorno d’oggi, quasi. La società”.
Non ebbi il tempo di replicare, la giovane infermiera era tornata con una coppia di omoni robusti pronti ad accompagnarmi fuori dall’ospedale. Quando il vecchio si alzò, non sprecai l’occasione per porgere la domanda che avrebbe soddisfatto la mia curiosità. “Quindi lei non è malato?” Sorrise caldamente ed ammiccò. “Siamo tutti un po’ malati, ragazzo mio. C’è solo qualcuno che è più bravo a fingere”. Salutandomi con un gesto della mano, si unì ai suoi compagni ballerini, fuggiaschi e relatori di fantastici discorsi con i muri silenziosi della struttura.
I due omoni della sicurezza mi afferrarono e mi lanciarono oltre le porte di vetro. La signorina mi guardò con sprezzo, ma io ero troppo impegnato a pulire il pigiama dal terriccio. “Qui accettiamo solo persone sane. Se ha intenzione di tornare, veda di farsi curare!” Sospirai rassegnato. “E da chi dovrei farmi curare?” Il mio sussurro si perse, accompagnato dalla fuga della notte, con l’arrivo dell’alba. Purtroppo me ne resi conto e dovetti rassegnarmi: di uomini malati come me, ne rimanevano davvero pochi.