Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
La frittata
di Emme
Se penso al domani, un po’ mi spavento. Può succedere in qualsiasi momento: al supermercato, mentre lavo i piatti, quando do da mangiare al gatto. Ci sto pensando anche ora, e avrei voluto godermelo, invece, questo primo caffè della giornata. Non dormo molto bene, da qualche settimana a questa parte.
Mi ritorna in mente quella frasetta stupida che mio padre declamava ogni volta che beveva un caffè in compagnia: “Il caffè dev’essere nero come la notte, caldo come l’inferno e amaro come la vita”. Osservo stancamente la tazzina di vetro che tengo fra le dita: io da anni lo prendo con un goccio di latte, zuccherato e tiepido, per non istigare il mio reflusso gastrico. Mi sento ribelle e vecchia insieme. Stranissimo.
Finisco il caffè in tre sorsate e sorrido appena, ma è un sorriso debole. Sto andando in menata, è chiaro.
Non è che la paura mi segua in ogni istante, non fraintendetemi, però quando mi raggiunge è veramente difficile da gestire: non è rivolta a qualcosa di particolare, è totale, e riesce a bloccarmi anche per giorni. Si porta dietro troppe domande tutte insieme.
Capiremo come risolvere il problema del cambiamento climatico o lasceremo che la Terra diventi un luogo inospitale alla vita?
Troverò mai un lavoro che mi permetta di arrivare alla fine del mese o dovrò dividermi per sempre fra tre lavoretti saltuari?
I vaccini per il Covid funzioneranno o ci troveremo a dover mantenere il distanziamento fisico per altri mesi o anni ancora?
Riuscirò prima o poi a sbarazzarmi del mio senso di inadeguatezza cronico o sono condannata a sentirmi sbagliata e al posto sbagliato ovunque andrò?
Potrei continuare ma penso sia chiara l’antifona.
Non è che io veda nero, davanti a me. Il problema è che io, davanti a me, non vedo proprio niente.
Eccola, mi stringe le sue tenaglie addosso. Devo fare qualcosa per scrollarmela via dalla schiena, questa paura. Potrei provare a distrarmi, non so, leggere un libro. Mi avvicino al mobile Ikea nero, le mensole ormai imbarcate dal peso di tanta carta. Da ragazzina mi dicevano sempre che le persone infelici sono quelle più intelligenti, e a quindici anni ci poteva anche stare, ma a trenta no, mi sale solo l’ansia. E un pensiero laterale che mi dice “Magari fossi scema…” ma cerco di ignorarlo.
Ottimo, è bastato pensarci e adesso sento che arriva anche lei, l’ospite indesiderata che si accompagna quasi sempre alla paura: l’ansia.
L’ansia da “è troppo tardi per realizzarti”.
L’ansia da “intorno a te è tutto immobile e non si muoverà mai nulla”.
L’ansia da “è colpa tua che non sei capace”.
L’ansia da “sei un’adulta a metà”.
Oddio, sto continuando a girarci intorno.
Non.
Va.
Bene.
Estraggo un libro a caso dalla mensola, è una versione piuttosto brutta e scadente di “Uno, nessuno, centomila” che ho comprato alle bancarelle di Natale più o meno dieci anni fa, dicendomi che così avrei finalmente letto un classico.
Non l’ho mai aperto.
Mi butto sul divano, sdraiata sotto tre coperte di pile. Come fin troppo spesso mi capita, ultimamente, invece di aprire il libro che ho in mano mi metto a scorrere Facebook al cellulare. Cagnolino. Post inutile. Buongiornissimo. Post troppo lungo per essere letto davvero. Figlio di Marta. Vabbè glielo metto un mi piace.
Perdo totalmente la cognizione del tempo. Senza rendermene neanche conto, crollo in un sonno triste ma, finalmente, profondo.
Mi risveglio che è quasi ora di pranzo.
Forse ne avevo bisogno.
Credo di aver fatto uno dei miei sogni faticosi, quelli che mi danno l’idea di stancarmi anche solo a sognarli. C’erano tante stanze, io mi ero persa e continuavo a sbagliare porta, non riuscivo a capire come trovare l’uscita.
L’uscita.
D’improvviso si fa strada dentro di me una sensazione nettissima di rifiuto, un bisogno di darci un taglio. Cos’è? Una sorta di cauto ottimismo, una specie di… determinazione?
Qui mi sa che l’unica soluzione è disegnare la porta giusta su un muro e passarci attraverso, tipo il binario 9 e ¾, o i tunnel di Willy il Coyote, anche se quelli funzionavano solo per il Beep Beep. Non ho idea di dove vada disegnata, questa porta, ma forse se ne disegno tante, prima o poi, una funzionerà. No?
All’improvviso, ho una gran fame. Apro il frigorifero, acchiappo il piatto con la frittata di pasta di ieri e gli faccio fare un giro in microonde, ringraziando la me stessa del passato per aver cucinato doppia razione.
Due minuti, tocco il piatto come se nulla fosse ma è bollente, ci casco ogni maledetta volta. Presina, piatto, tavolo: è questo l’ordine giusto.
Mi siedo e mi sorprendo di non aver tirato giù nessun santo dal paradiso, dopo essermi scottata. Non riconosco la persona con cui sto per pranzare, eppure ci sono dentro, sono io.
Guardo la frittata e mi perdo per qualche secondo nella tortuosità del percorso degli spaghetti. Mi immagino che ogni spaghetto sia una strada da seguire, piena di curve, di su e giù, di svolte oltre le quali non sempre si vede cosa ci aspetta. Mi chiedo cosa vado a pensare, ma tutto sommato non distolgo lo sguardo. Osservo ancora, e ogni spaghetto incontra altri spaghetti, così come i percorsi di ognuno si incrociano, si toccano, e danno vita a qualcosa di bello, di buono, come questa frittata. Come il domani.
E allora me lo voglio mangiare, questo domani.