Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
I gabbiani non cantano di notte
di Carmine De Mizio
Lo giurava tutti i giorni, a tutti quanti, e ogni volta era uno scrosciare di risate e uno sbattere di mani, lo prendevano sempre in giro come se fosse uno stupido. Ma era vero, lui lo ricordava bene, era uno dei pochi ricordi di bambino che ancora riusciva a trattenere.
Si trovava su una spiaggia con suo nonno, il sole stava tramontando in un mare che in pochi secondi, nel tempo di un battere di ciglia, si era trasformato dal colore dell’oro a quello della pece. Finalmente dopo tanti mesi era riuscito a convincere la mamma che era abbastanza grande per poter andare a pescare di notte con il nonno e quella sera era eccitatissimo. Finalmente poteva mostrare a quell'uomo a cui voleva tanto bene quanto fosse bella la sua nuova canna da pesca e soprattutto quanto fosse diventato bravo a pescare. Si era esercitato per tutta l’estate con gli amici al molo, adesso faceva dei lanci talmente forti che quella sera sarebbe stato in grado di far arrivare la sua esca fino a pochi metri dall'isola che si vedeva in lontananza dalla costa sempre nascosta da un velo di foschia. Peccato, però, che di notte l’isola non si vedesse, non avrebbe potuto verificare l’effettiva potenza del suo lancio.
Si sedettero su due piccole sedie pieghevoli e iniziarono a pescare, la luna non era abbastanza grande da illuminare col suo lieve riverbero e perciò l’unica luce visibile era quella del sigaro acceso. Il nonno se ne stava in silenzio e guardava lo spazio infinito davanti a sé, perso nel metodico rovesciarsi della risacca e nel luccichio lontano del mare increspato. Poi d’un tratto li sentì, sentì il loro grido, acuto e gracchiante allo stesso tempo, sentì le loro voci che a tratti sembravano umane: erano i gabbiani che volteggiavano invisibili sopra di loro. Era molto piccolo, perciò chiese al nonno: «Nonno, ma i gabbiani cantano anche di notte?».
Il vecchio sorrise, ricordava il suo volto rugoso alla luce della piccola torcia che aveva appena acceso, e provò a spiegare con parole semplici di come quegli uccelli stessero cantando il loro ancestrale richiamo e il loro saluto al mare e alla terra.
«So quanto siano difficili queste cose, però devi sapere che questi animali sono più antichi dell’uomo e migliori di lui. Prendono quanto gli occorre di quello che gli offre la terra e di quello che gli offre il mare, dormono cullati dalle onde e si riparano sulle scogliere. Quanti uomini sarebbero capaci di fare altrettanto? Il loro canto non è solo un modo di comunicare, è la loro poesia, la loro musica, capisci?».
Annuì, il bambino, finse di aver compreso, e solo una volta, anni dopo, una notte della sua gioventù sentì nuovamente cantare i gabbiani e si ricordò di suo nonno, ricordò il suo sorriso. Poi non sentì mai più il loro canto notturno.
Arrivò la vita, quella vera, lontana dai giochi e dai ricordi fanciulleschi e di notte non fece più caso ai gabbiani. Finché i gabbiani non smisero di cantare del tutto, la notte.
Adesso che era diventato lui un nonno aveva rispolverato quel lontano ricordo, ma il mondo nuovo in cui si era svegliato ormai vecchio non gli credeva, sembrava l’unico a sapere che i gabbiani cantavano di notte, o almeno che una volta lo facevano, che in un tempo dimenticato era così. Ma com'era possibile che nessuno gli credesse? Dicevano: «Sei diventato vecchio, ti starai sbagliando, forse è una favola che ti raccontavano quando eri bambino». Non era assolutamente così, non si trattava di una favola né di un suo delirio. E lo avrebbe dimostrato, avrebbe dimostrato a tutti che era come diceva lui.
Ma se avesse scoperto che il mondo che aveva contribuito a creare con la sua piccola parte di lavoro, aveva davvero tolto la parola ai gabbiani, di notte? Perché di giorno i gabbiani cantavano sempre, ma il nonno gli aveva spiegato che quello notturno era il canto più sincero, quello che conteneva le loro emozioni e le loro passioni. E se il mondo che avevano creato, lui, i suoi amici, i suoi figli, il mondo in cui avrebbero vissuto i suoi nipoti fosse stato condannato a non avere più poesia? Non riusciva a pensare a una tragedia così grande, si sarebbe sentito in qualche modo complice di quel delitto. Sentiva il peso di una cosa che si era compiuta senza essersene accorto. Se solo durante la sua vita si fosse ricordato dell’insegnamento del nonno forse avrebbe potuto vigilare. Anche lui, come tutti gli umani, era finito vittima della frenesia, travolto dall'uragano materialista divenuto sempre più veloce, più ancora che negli anni della sua gioventù, e che gli aveva nascosto l’importanza della poesia della natura. Ormai però era troppo tardi per piangere il passato ed era il momento di assicurarsi che anche solo una goccia di speranza fosse ancora presente tra le trivelle, le grandi navi e le petroliere, che ormai abitavano il mare su cui un tempo si cullavano quegli uccelli. Se anche solo uno di loro avesse ancora cantato il suo ringraziamento al mondo allora voleva dire che non tutto era perduto.
Un giorno di fine maggio uscì di casa subito dopo cena. La canna da pesca in spalla, una foto sbiadita di suo nonno in tasca che aveva cercato per tutto il giorno, si diresse verso il mare. Non ricordava quale fosse la spiaggia precisa dove aveva appreso quella grande verità, però ricordava che era su quel tratto di costa dove si trovava e si sentì felice lo stesso. Camminò a lungo sulla battigia, non si decideva a sedersi per pescare, forse perché aveva ancora in mente il ricordo dell’unica volta in cui l’aveva fatto di notte. Lanciare la propria esca verso quei palazzi galleggianti davanti a lui, che avevano preso il posto dell’isola nascosta, non gli avrebbe dato la stessa gioia. Passò una buona parte della notte nel silenzio spettrale che lo avvolgeva. Poi d’un tratto, in lontananza, sentì un fischio che sembrava acuto. Iniziò a correre, per quanto gli permettesse la sua età.
Quell'uomo camminò a lungo e forse sta ancora camminando, con una lacrima sul volto, sta ancora inseguendo l’ultimo canto notturno del gabbiano.