Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
CONTARE QUALCOSA
di Nicola Adami
Non avvertì quasi per nulla il primo tocco freddo dell'acqua della notte. Era già immersa fino alle caviglie quando si rese conto che lo stava facendo davvero. Un piccolo pensiero le entrò in testa, un dubbio: aveva spento tutte le luci in casa? Ma, in fondo, non contava averlo fatto o no. Niente contava più. Fece un altro passo, e le sembrò che fosse giusto quello che stava facendo quella notte, che fosse anzi l'unica soluzione, l'unica strada che le era rimasta. L'acqua le arrivava quasi alle ginocchia, le sue gambe erano improvvisamente fredde, il cuore le batteva forte. Ventidue anni. Troppi, o troppo pochi. Non contava. Contavano solo le cose che non aveva più, le cose lasciate andare per forza o perse per colpa. L'abbraccio di sua madre volata via troppo presto, le amiche per sempre, sparite lungo la strada dopo la scuola, e quelle nuove incontrate più tardi in comunità, che per un po’ l'avevano tenuta a galla e lontana dalle cose brutte. Gli studi in economia che non aveva i soldi per completare. La sequenza quasi interminabile di lavori che aveva fatto per pagarsi la vita, e i vizi, e le dipendenze, senza mai approdare a niente che durasse più di qualche notte. Le prospettive e le previsioni di un futuro brutto, dominato dalla sua incertezza e dalle sue debolezze. La distanza sempre infinita tra le sue labbra e quelle di Gianni. Ma niente la tratteneva, ormai. Il peso del sacco pieno di pietre che portava stretto in grembo le aveva già indolenzito le braccia. Il peso, i pesi che portava sulle spalle da una vita, invece, l'avevano stancata e stremata a tal punto che nessuna emozione, mentre avanzava nell'acqua di notte, arrivava alla superficie del suo viso. Una semplice passeggiata, un bagno estivo notturno. L'ultimo. L'acqua arrivava fino al petto, quasi, quando si scoprì a singhiozzare silenziosamente. Un ultimo residuo di affetto per una vita disgraziata, o forse un semplice effetto fisico del rifiuto della morte, combinato con il freddo del mare, insolito per una delle estati più calde degli ultimi cento anni. Chi l'avrebbe trovata? Come? L'avrebbero riconosciuta? Si sarebbe meritata un trafiletto di giornale, tre minuti di Studio Aperto? A chi avrebbero chiesto di lei? Di chi era stata, veramente? Non erano preoccupazioni che avrebbe dovuto avere, non più. Non contavano. Non contavano come niente sembrava contare nella sua vita, perché la sua debolezza così aveva voluto. Era quello che le aveva sempre detto il suo avvocato. “Nella vita devi imparare a contare qualcosa”. Un altro passo. Il sacco pesava, ma non poteva lasciarlo andare. Il ritmo del suo respiro si fece irregolare in preparazione degli ultimi passi. La sabbia cedeva e si muoveva sotto i suoi piedi, il mare era quasi trasparente per via della luce calda della luna. L'acqua salata le baciò le labbra, piano, e lei chiuse gli occhi, lanciandosi in un ultimo abbraccio verso il mare che tanto amava, perché le ricordava le storie appassionate che le raccontava suo nonno, per farla dormire quando fuori c'erano i tuoni. Ora avrebbe dormito. Chiuse gli occhi, sott'acqua: non aveva mai imparato a tenerli aperti, troppa paura. Ma non avrebbe mai più avuto la possibilità di imparare nulla. Il petto si muoveva veloce, ora, e le mani si stringevano al sacco di pietre, mentre si sforzava di continuare ad avanzare. L'acqua attutiva tutti i rumori esterni: lì, nulla poteva raggiungerla. Era sola, finalmente. Sola con le sue paure e i suoi peccati. Peccato non aver mai baciato Gianni. Quest'idea la colpì così forte che le fece aprire gli occhi, e per la paura lasciò scappare qualche bolla d'aria dalla bocca. Ecco che aveva imparato a tenere gli occhi aperti sott'acqua. Ecco che pensava alle labbra di Gianni, alla fine. Una speranza alla fine di tutto. Le sue labbra contavano, però, soprattutto adesso. E le sue mani. E i suoi abbracci. E contava che lei volesse disperatamente essere abbracciata da lui, essere al sicuro. Non sapeva se lui avrebbe mai voluto abbracciarla, non glielo aveva mai chiesto né ci aveva mai provato. Non aveva mai provato nemmeno il cibo indiano. Non aveva mai provato ad andare sui pattini. Non aveva mai ballato ad un concerto. Mai preparato le lasagne. Queste cose contavano. Adesso, soprattutto, contavano: perché non le avrebbe mai imparate. Delle fitte agli arti la riportarono alla realtà per un attimo: i polmoni le bruciavano, le dita erano intorpidite, la testa le pulsava forte. L'acqua nelle orecchie le dava calma e silenzio. E contava, per lei contava tantissimo quella notte, riuscire a scoprire se esisteva un modo, qualunque modo, per ridurre la distanza tra le sue labbra e quelle di lui. Contava il suo desiderio di avere un cane, perché odiava i gatti. Contava la sua voglia di imparare lo spagnolo, perché non era mai stata a Barcellona. Contavano i disegni appesi al muro della sua stanza, perché li aveva fatti lei a otto anni. Contava la voce bassa di suo fratello, perché c'era sempre stata. Contavano tantissime cose che aveva. E fu allora, quando smise di contare quello che non aveva e iniziò a desiderare di contare quello che possedeva già, che iniziò a tenere il conto con le mani, per non dimenticare qualcosa. Presto le servirono tutte le dita di tutte le mani che aveva a disposizione. Lasciò andare il sacco pieno di pietre, e stava ancora contando quando rivide la luna. L'aria, fuori dall'acqua, era bellissima. Nuotava piano verso la riva continuando a contare le cose che importavano, e non esisteva cosa nel mondo che avrebbe potuto farla smettere di ridere forte.