Le cose di dopo
Il Contest del FLA2020
Io, Domani
di Alessia Di Girolamo
Io, Domani
Una scintilla viola. Un punto luminoso del cellulare mi avvisa: un messaggio.
“Quanto tempo? Quante vite? Cos’hai fatto negli ultimi vent’anni?”
A volte basta così poco per cambiare l’andamento della giornata.
Faccio mente locale. Andrea. Università. Primo amore, folle, intenso e breve. La catapulta della memoria mi riporta a eventi che temevo perduti. Volti e occhi, amici e accadimenti. Eppure è tutto ancora qui, tra le rughe del cervello. Nulla si cancella davvero.
Rispondo di getto, non penso a quello che scrivo. L’emozione è forte. Il cuore accelera e rendono incerte le dita che si muovono sul touch del telefono. Poi rileggo il suo messaggio. Emergono chiare tre semplici ed innocue parole: tempo, vite, vent’anni. Torno alla mia risposta: tempo perso, due figli.
Chiudo la chat e mi osservo. Osservo la mia vita con i suoi occhi. Azzurri e chiarissimi, sinceri e timidi. Ricordo di essermene innamorata sulle scale della facoltà. Giubbino bianco, cappello nero a incorniciare quegli occhi accesi da una lama di sole invernale. Questione di un attimo.
Ma se mi vedessero adesso, cosa penserebbe di me? Cosa e come siamo oggi?
Più mi guardo più mi accorgo di essere diventata l’opposto di quel che volevo, speravo, sognavo. Andrea invece è all’altro capo del mondo. I suoi occhi adesso si riflettono attraverso fessure a mandorla.
Vuole ancora sapere di me. Gli racconto che ho avuto paura di camminare lontano e per questo sono tornata da dov’ero partita. Ho rotto i miei sogni come un salvadanaio: i frammenti sparsi lungo venti anni di vita che a malapena ricordo di aver vissuto.
Dove sono stata? A quale incrocio ho perso la rotta? Io lo so. Conosco la mia storia ma fatico a perdonarmi. Pur sapendo, perché mi sembra che quei cocci rotti li abbia sotto i piedi nudi, sulla lingua della mia anima? Sanguino lacrime tanto è lo sconforto che mi assale.
Andrea scrive ancora. Mi racconta che a distanza di tanto tempo sono ancora lì, impigliata ai suoi rancori. Nemmeno lui mi ha perdonata per averlo lasciato. Dentro di me penso che in realtà io l’abbia liberato. Senza di me è andato lontano. Senza di lui sono tornata sui miei passi, riavvolgendo il filo delle mie ambizioni. Non gli racconto che mi imputo anche la colpa di aver lasciato fare alla vita il proprio compito: ossia dipanarsi a suo piacimento, spifferare e beffarsi di me. Semplicemente non mi sono imposta. Ho sollevato gambe e braccia alla corrente del fiume. Ho lasciato che accadesse. A metà della mia esistenza, o almeno spero, sono giunta alla foce e la vita mi sta partorendo di nuovo, mi sta espellendo dalla sua pancia, buttandomi nel mare dell’incertezza: quest’ultima, altra figlia sua. Soffoco i sensi di colpa e mi prodigo alla riesumazione di fatti lontani, più felici, semplici, un po’ scoloriti dalla furia degli anni che passano. Andrea mi aiuta. Anche lui rispolvera episodi esilaranti e per un attimo azzeriamo la distanza che ci divide. Ma il fuso orario gli impone di andare a dormire: è notte fonda, quasi l’alba da lui. Lo saluto con affetto e lo ringrazio per essere ricomparso ma ometto di rinfacciargli la voragine che ha aperto dentro di me.
Tecnicamente non è colpa sua. È una questione matematica. Una proporzione. Andrea sta al successo come io sto al fallimento. Questa certezza ha lavorato dentro di me come il magma tra le vie interne dei vulcani. Ha accumulato energia e detriti per un tempo sufficientemente lungo da produrre un’esplosione allarmante. E adesso che la lava cola sulle pareti del mio essere lasciando incendi al passaggio delle sue lingue infernali, mi ritrovo a dover affrontare un problema che ho sempre cercato di evitare: il mio futuro, prossimo, imminente, anteriore.
Lascio che la pena per me stessa si plachi un po’, continuo a piangere, mi sfogo, me lo concedo. Finché non arriverò al fondo di questa angoscia, finché non mi sarò svuotata di tutti i lugubri pensieri, non potrò riempirmi di speranze e possibilità, progetti e positività. Mi impongo di prendere le redini di quel che resta della mia vita: non so cavalcare, le reggo con una certa destrezza mal celata. Fare finta a volte aiuta. Pensare positivo aiuta. Credere in se stessi aiuta. Vedersi proiettati verso una realizzazione certa aiuta. Così come vedere il bicchiere sempre mezzo pieno, sorridere di fronte alle difficoltà, essere sempre presenti a se stessi, prendere di petto le situazioni, riflettere prima di agire ma anche agire d’istinto. Stereotipi del saper vivere, del gestire le proprie emozioni in maniera ottimale. Ottimizzazione del tempo e dello spazio, delle risorse a disposizione. Rendersi conto del frangente infausto che stiamo vivendo: celati dietro pochi centimetri di stoffa convincendoci che ce la faremo ancora, un’altra volta, sempre.
Faccio un bilancio del presente e metto da parte il mio passato. Non dimentico però che le cose di ieri faranno sempre parte delle cose di oggi e di domani. Mi guardo ancora, mi osservo da un po’. Mi affido alle mie buone qualità, poche ma resilienti. Compio uno sforzo esagerato e mi proietto in avanti, un salto distopico, in un tempo non definito perché al momento mancano strumenti e condizioni per una valutazione precisa. Scatto una fotografia: sono Io, Domani. Mi riconosco. Finalmente mi piace ciò che vedo. Finalmente la mia idea di Me e la realtà coincidono alla perfezione. Mi ci è voluta mezza vita per invertire la rotta, ma adesso che ho il timone tra le mani, e anche se non so navigare, lascio al mare il mio timore, sciolgo le vele come pensieri, mi perdono, mi siedo e inizio a scrivere.