Le cose di dopo

Il Contest del FLA2020

Seminare il futuro

di Giorgia Di Ferdinando

Marco non amava alzarsi presto al mattino. Da quando non era più atteso in ufficio, da quando non era più necessaria un’attenta routine di preparazione atta a renderlo decoroso e presentabile al mondo esterno, da quando il suo unico collega era diventato il PC, con il quale condivideva le quattro mura asettiche del suo appartamento, Marco aveva addirittura smesso di impostare una sveglia.
Ecco perché quella mattina, mentre il suono stridulo e metallico del citofono si faceva insistentemente strada fra le stanze dell’appartamento, Marco dormiva. Anzi, sognava. Per l’esattezza sognava di un treno che correva sui binari, sempre un po’ più veloce di lui, che tentava disperatamente di raggiungerlo. Il treno però non emetteva un suono comune, emetteva un suono stridulo e metallico, un suono quasi simile a …
Marco si svegliò sudato e con i battiti accelerati. Il suono stridulo e metallico del citofono aveva finalmente compiuto la sua missione.
«Buongiorno, il Signor Rosso? Un pacco per lei.» esordì la postina dietro la porta appena aperta, in evidente affanno a causa del gigantesco pacco fra le sue braccia.
Marco si limitò a guardarla con espressione confusa.
«Non ho ordinato nulla.» aggiunse dopo qualche istante di silenzio.
«Sarà un regalo! È molto comune di questi tempi. Sa com’è… è un modo per sentirsi più vicini.»
Anche dopo aver salutato la postina, rimasto solo in casa con il gigantesco pacco di fronte a lui, Marco continuava ad essere perplesso. Un regalo? E chi avrebbe mai potuto fargli un regalo? I suoi genitori? Difficile: non erano pratici di acquisti online. I suoi amici? Improbabile: avrebbero menzionato qualcosa nel corso delle ormai usuali aperi-videochiamate del sabato. La sua ragazza? Impossibile: non aveva una ragazza. Mentre si perdeva in queste riflessioni osservava il pacco da lontano, quasi spaventato dal suo possibile contenuto. Niente mittente, niente ricevuta, niente di niente. Solo il nome del destinatario a lettere cubitali. Sì, era proprio lui.
Nel silenzio dell’appartamento vuoto, del condominio abitato quasi completamente da studenti e ormai spopolato, delle strade semi-deserte, dopo interminabili attimi di esitazione, Marco decideva di lasciare il pacco lì dov’era, almeno fino alla pausa pranzo.
Da quando era stato emanato il decreto che vietava di uscire di casa, la vita di Marco si era ridotta ad una serrata routine sempre uguale a sé stessa, fatta di lavoro, pasti principali e serie tv, intervallate di tanto in tanto da qualche videolezione di yoga o qualche tutorial per imparare finalmente a suonare la vecchia chitarra impolverata, regalo di qualche zia del Nord. Quella del pacco era, in effetti, la prima piccola ventata di novità in un mese e per questo non aveva potuto fare a meno di pensarci durante tutta la mattinata e durante tutto il pranzo, mentre si sforzava di ascoltare alla televisione i dati giornalieri sull’andamento della pandemia.
Ma ciò che qualche attimo dopo trovò all’apertura del pacco, non sarebbe riuscito a immaginarlo nemmeno dopo un altro mese di ipotesi.
Quattro vasi, quattro sacchetti. Nessuna lettera, nessuna istruzione.
Sempre più sconcertato, ma sempre più incuriosito, Marco cominciò ad esaminare i sacchetti. Piccoli, leggeri, bianchi e opachi, così che non fosse possibile vedere il contenuto. Su ciascuno, una piccola etichetta: “Semi di ansia”; “Semi di noia”; “semi di solitudine”; “Semi di rassegnazione”.
Doveva essere uno scherzo, era sicuramente uno scherzo. Poco divertente, ma comunque uno scherzo. Quello che però proprio non riusciva a spiegarsi era il perché quello scherzo fosse rivolto proprio a lui, lui che non aveva tempo né voglia di pensare a queste cose, lui che voleva solo pensare al suo lavoro, ai suoi pasti e alle sue serie tv. Affrontare una pandemia chiuso in casa e lontano da tutti era già difficile così.
I quattro vasi e i quattro sacchetti rimasero così, abbandonati sul pavimento della cucina per diverso tempo, fino a che la polvere non arrivò a ricoprirli. Fu allora che Marco decise che era arrivato il momento di pulire e buttare via quello scherzo poco divertente.
Sarà stato per la fretta dell’apertura o sarà stato per il disinteresse e l’incredulità che, il giorno in cui era arrivato il pacco, Marco non aveva assolutamente notato la scritta che campeggiava sul retro dei quattro sacchetti: “UTILI PER IL DOPO”.
“Il dopo”. Questa parola risuonò nell’apatica mente di Marco come la sveglia che ormai aveva smesso di impostare. Il dopo. C’è un dopo, ci sarà un dopo, deve per forza esserci un dopo. Si rese conto in quel momento che da quando si era ritrovato catapultato in questa situazione da colossal americano non aveva più pensato al futuro. Non aveva più pensato al viaggio in Giappone, all’azienda alla quale voleva mandare il suo curriculum, alla ragazza con cui aveva bevuto quel caffè qualche giorno prima che tutto si fermasse, alla prossima volta che avrebbe visto i suoi genitori, al film che aspettava da un anno, a quando avrebbe rivisto il mare. Ma il futuro non era scomparso. Il suo smettere di pensarci, la sua rassegnazione di fronte ad una vita messa in stand-by non aveva cancellato il futuro, che continuava ad aspettarlo dietro l’angolo, come continuava ad aspettare il mondo.
Mosso da questa illuminazione, aveva aperto il pacco.

Questa è la storia che mi ha raccontato Marco quando finalmente sono andata a trovarlo, dopo la pandemia, mentre mi mostrava le bellissime piante che erano cresciute sul suo terrazzo in quattro vasi: la pianta della prudenza, cresciuta dai semi dell’ansia; la pianta dell’ introspezione, nata dai semi nella noia; la pianta della solidarietà, nata dai semi della solitudine; la pianta della speranza, nata dai semi della rassegnazione.

 

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